Autobahn, la recensione
Un film che viene dal passato Autobahn, tarato su standard di eroismo, maschilismo e sentimentalismo che non si vedono più ma funzionano ancora
In questo caso i binari cui è legata Felicity Jones tinta di biondo (perché sono americani in trasferta in Germania, conosciuti in un rave party, o almeno così chiamano quella che sembra una normale discoteca) sono quelli della malattia: ha bisogno di un fegato nuovo, l’operazione costa e invece di struggersi come si farebbe in un melò, il genere in cui protagonisti sono la donna e i suoi sentimenti, lui decide di tornare alla vecchia professione, il ladro, e accetta un lavoro rischiosissimo: derubare un potente boss per conto di uno un filo meno potente. Va subito detto che la scelta di avere nel ruolo del primo Anthony Hopkins e la sua flemma aristocratica e in quello del secondo Ben Kingsley e la sua consueta voglia di esagerare in espressionismo, paga e molto. Per quanto sia difficile crederlo la maniera in cui stavolta incorporano ognuno il proprio stereotipo è effettivamente funzionale ad una scrittura parca ma sempre centrata.
Non solo dunque Eran Creevy è molto bravo a sbrigare in fretta i tantissimi inseguimenti e infarcirli di così tanti eventi da non far pesare la loro lunghezza, ma dà al suo protagonista un tono così antieroico e fortuito, lo rende così ordinario e capace di cavarsela grazie ad una disperazione tangibile (complice il physique du role dell’innamorato senza un domani con gli occhi da cane bastonato di Hoult), che non solo si crede allo spunto avventuroso e non ci si cura delle infinite implausibili iperboli, ma addirittura si scorge anche un certo fascino in questa furia romantica postadolescenziale, la più classica delle corse a perdifiato contro tutto e tutti, contro un mondo cattivo, alla rincorsa della propria ragazza.