Attraverso i Miei Occhi, la recensione

Puntando tantissimo sulla pena Attraverso I Miei Occhi è molto più kitsch di quanto non riesca ad essere onesto e sentimentale con gusto

Critico e giornalista cinematografico


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ATTRAVERSO I MIEI OCCHI, DI SIMON CURTIS - LA RECENSIONE

Ci sono 2-3 film differenti dentro Attraverso i Miei Occhi. C’è una storia di amore e malattia, nel segno di Colpa delle Stelle; c’è una storia di paternità contesa in cui un padre lotta per avere l’affidamento della figlia come in Black or White; c’è una storia di corse di un pilota che deve vincere a tutti i costi. Un piccolo campionario di cinema di pianti avvolto in una storia di relazione canina che vorrebbe essere Io e Marley ma non è mai Io e Marley o meglio, per essere più precisi è Io e Marley scritto dallo sceneggiatore del remake di Atto di Forza.

L’equilibrio delicatissimo di quel film, perfetto per scrittura e struttura drammatica, è qui mandato immediatamente all’aria dall’idea di lasciare che sia il cane stesso a narrare gli eventi. Quella che nel film con Owen Wilson era una vera idea (raccontare la felicità e la gioia del rapporto con un cane disastroso e pestifero) qui diventa banalità (raccontare di un cane perfetto ed esemplare attraverso una vita piena di drammi), ciò che lì era raffinato (tenere sempre il cane sullo sfondo eppur presente, vero testimone silenzioso) qui è grossolano (il cane parla, ancora peggio: è il narratore ruffiano della storia e mira a farvi piangere esplicitamente).

Sentire i pensieri del cane, invece di vederlo in azione e derivarli, è proprio quel passo più in là del necessario nel territorio del melodrammatico che crea il kitsch. Da manuale.

Il cane-eroe di Attraverso i Miei Occhi pontifica sugli umani, racconta di come si struggeva di dolore nell’assistere impotente alle loro peripezie, ovviamente aiuterà il padrone quando ne avrà bisogno (in un momento di pura demenzialità in cui una decisione complicatissima viene presa “seguendo quel che fa il cane”) e sarà sempre giustificato, sempre in cima alla lista dei buonissimi. Invece che prendere le vere idiosincrasie dei rapporti con gli animali, questo film li eleva nel territorio dell’astrazione e del buonismo, fingendo, mistificando e allontanando il suo sentimentalismo alla buona dal reame dell’intimità. Più i sentimenti vengono esibiti più risultano contraffatti, svelando smagliature, crepe e giunture arrugginite.

Così fin dall’inizio, fin dalla voce del cane, il sentimento prevalente che il film scarica sugli spettatori è la pena. Pena per lui, per i padroni, per le figlie, per le situazioni e per la condizione stessa dell’essere cane (quel che desidera è reincarnarsi in un umano). Gigi Proietti lo doppia in italiano (Kevin Costner in originale) e non fa che enfatizzare questo sentimento di terribile pena con una voce bassa e profonda e toni dolcissimi, da cane anziano quale è quello che racconta.

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