Attacco a Mumbai, la recensione

Questa volta non è solo il coraggio e la voglia di vivere delle vittime a fare il film, Attacco a Mumbai parla anche degli attentatori

Critico e giornalista cinematografico


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Da quando le storie di attentati sono diventate un vero e proprio genere, con i suoi di personaggi archetipici (la vittima/eroe, la famiglia a casa, i lavoratori del giorno della tragedia) e le sue scene chiave (l’inizio idilliaco, l’annuncio della minaccia, la guerriglia durante l’attentato, il finale con le foto dei veri protagonisti della storia) è diventato chiaro che il dettaglio da cui è possibile capire la serietà delle intenzioni del film è il rapporto che questo stringe con gli attentatori. Un veterano e fondatore del genere come Peter Berg ha una posizione molto chiara: non li mostra se non di sfuggita, con pochi tratti e li lascia all’immaginazione (più che altro negativa) del pubblico, non gli interessano e li disprezza.
Attacco a Mumbai invece fa il lavoro contrario, gli dedica ampie fette di racconto e cerca come può di approfondirli. Paradossalmente non sono loro i suoi nemici.

C’è negli attentatori dei veri attacchi che nel 2008 colpirono l’hotel Taj di Mumbai una sofferta umanità. Inizialmente visti come robot, automi privi di volontà agiti da un altrove, conquistano lentamente una loro umanità più si avvicinano alla morte. Quel tipo di trattamento, di gentilezza, di dovizia di primi piani ed espressioni gentili che solitamente è riservata ai protagonisti Attacco a Mumbai cerca (specie nel finale) di riservarla anche a loro. Hanno l’umanità delle pedine inconsapevoli, attirati da una promessa di benessere, giustizia, vantaggi per i propri familiari, compiono la strage che gli è stato detto essere giusta e ne portano i segni già lì, nell’hotel, durante l’attacco.

Se si guarda l’altra faccia della medaglia (le vittime) il film di Anthony Maras invece distribuisce a piene mani la melassa eroica che il cinema americano cerca in tutti i modi di scrollarsi di dosso (o almeno di mascherare). È un’ingenuità sentimentale tipica del cinema indiano che all’occidente suona troppo smaccata e fanciullesca per commuovere davvero e che Attacco a Mumbai incorpora in uno stile che per il resto guarda molto al cinema americano. L’integrità della classe impiegatizia dell’hotel, la decisione e il senso del dovere dello chef, la schiena dritta di fronte alla sacralità dell’ospite (che a quanto pare rimane tale anche quando si è tutti coinvolti in un attentato), sono le parti in cui il film incensa senza remore i suoi protagonisti, il dazio che paga alla commissione e al suo pubblico d’elezione.

Questa confezione che porta pochi segni internazionali e abbastanza bene ricalca lo stile hollywoodiano senza appartenergli, culla con la sua lieve e dolce esaltazione del coraggio faticoso delle vittime, determinate a salvarsi tutte insieme e a tornare dai propri cari, ma scuote con quella sua strana forma d’empatia verso gli attentatori (in realtà è un modo di far slittare il vero nemico più in alto di questi pesci piccoli, raggirati e invasati). A differenza gli altri film sul genere Attacco a Mumbai non vuole solo mettere in scena lo spirito indefesso e incrollabile di chi è attaccato, ma anche la miseria di chi attacca e la pietà nei confronti delle condizioni che li portano ad essere strumenti di morte, massacrando se stessi prima ancora di iniziare a farlo con gli altri.
La malvagità di chi commissiona non si misura quindi solo con la morte delle vittime ma anche con la devastazione delle persone che premono il grilletto.

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