Atlas, la recensione

Atlas è la risposta di Jennifer Lopez a Top Gun Maverick, ma non riesce altrettanto bene a raccontare l'invecchiamento della sua diva.

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La recensione di Atlas, il film diretto da Brad Peyton in arrivo su Netflix dal 24 maggio.

Il motivo per cui Atlas è un film frustrante sta già tutto nel titolo. Nella mitologia greca Atlante è il titano che regge il mondo sulle spalle. In Atlas il mondo poggia tutto su Jennifer Lopez. Che qui, anche produttrice, è evidentemente il cervello di un’operazione cucita su di lei, che mira a tematizzare il suo non essere più nel fiore degli anni (nonostante la forma proverbiale) e alla luce di ciò rilanciare il suo divismo in chiave autoconsapevole e crepuscolare. A minare l’operazione è il modo in cui la scrittura le si avvolge narcisisticamente intorno, rendendo ciò che dovrebbe essere un chiaro ma velato sottotesto il centro totalizzante della narrazione. È un peccato perché in più momenti Atlas mostra un carattere e una voglia di fare non disprezzabili, che in questo modo rischiano di esaurirsi nel puro star vehicle.

Il miglior termine di paragone per Atlas è Top Gun: Maverick, dove Tom Cruise raccontava tramite un vecchio asso dell’aviazione acciaccato la propria mistica di ultima star di un cinema ormai scomparso. Allo stesso modo Lopez inscrive il suo invecchiare in una storia già sentita mille volte, quella della ribellione delle macchine che sfuggono al controllo umano. Non è un’idea stupida, perché il tema trova nuova linfa nella possibilità che offre di riflettere sulla Hollywood contemporanea, dove il ruolo dell’intelligenza artificiale è stato per mesi al centro dei recenti scioperi di sceneggiatori e attori. Come Maverick Atlas avrebbe la possibilità di raccontare tramite il genere i cambiamenti che interessano il cinema, basando tutto su un personaggio “della vecchia guardia” in cui si rispecchia una star non più di primo pelo.

Anche qui il destino della protagonista si lega idealmente a quello di un cinema che non esiste più e che si punta a far rivivere: quello della fantascienza anni ‘80, ma anche quello mecha che aveva già provato a resuscitare Guillermo Del Toro con Pacific Rim (2013). Della prima si recupera il grande protagonismo femminile (Ripley e Sarah Connor) oltre ad alcune divertenti sequenze prostetiche che ricordano gli androidi “riattivati” di Alien e il test Voight-Kampff di Blade Runner. Del secondo tutta la parte avventurosa in cui la protagonista, diffidente verso le A.I., deve imparare a comunicare con un’armatura-robot di nome Smith, in una dimensione quasi buddy movie. Nei dettagli di questo recupero sta il meglio di Atlas, che a tratti riesce davvero a far respirare un po’ di quel cinema.

Ciò che purtroppo manca totalmente in Atlas (e che invece aveva Maverick) è la capacità di rendere simpatica la sua star, aspetto fondamentale perché è tramite Lopez e il suo essere fuori dal tempo che si comunica l’ansia per il futuro che pervade il film. Da una parte c’è un po’ di “sindrome di Brie Larson” nel modo in cui il suo personaggio è scritto per essere sovrumano, sempre la più intelligente nella stanza, quella che quando dice una cosa ha sempre ragione e di cui gli altri personaggi in scena non smettono di tessere le lodi, neanche quando sembrano criticarla. Dall’altra parte la sceneggiatura si chiude su di lei in modo veramente claustrofobico: arrivati alla fine ci accorgiamo che quasi ogni punto di trama e world building è legato alla sua biografia o causato direttamente da lei.

Insomma non solo J.Lo salva il mondo, ma forse è stata proprio lei a metterlo in pericolo. E nel mezzo scopriremo tutto sui suoi gusti, capacità, debolezze, paure, sensi di colpa, che ama il caffè, che le piace la torta. Ma pochissimo di altro. Non è un modo intelligente di propagandare la propria stardom, perché non permette mai di dimenticarsi della costruzione del discorso divistico e godersi il mondo raccontato. Che sarebbe il motivo per cui si guarda un film di fantascienza.

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