Atlanta (prima stagione): la recensione

Dopo il trionfo ai Golden Globe, recuperiamo una delle migliori sorprese del 2016: Atlanta, la serie di FX ideata da Donald Glover

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Si è imposta come migliore serie comedy agli ultimi Golden Globe, e già in precedenza aveva suscitato un certo clamore intorno a sé, tant'è che l'avevamo inserita tra le migliori novità del 2016. Ora diamo uno sguardo più ravvicinato ad Atlanta, la dramedy (definizione totale che ingloba, ma che ha sempre bisogno di ulteriori specificazioni) ideata da Donald Glover e andata in onda su FX negli ultimi mesi dell'anno. In dieci episodi vive l'esordio sperimentale e spregiudicato di un autore che affronta ora con gravità ora con apparente leggerezza l'indecisione di una comunità sospesa tra locale e globale, tra problematiche sociali mai risolte ma inserite in un contesto sempre più grande.

La storia è quella di Earn (Donald Glover), che si improvvisa agente del cugino Alfred (Brian Tyree Henry), rapper di nome Paper Boi. Earn ha visto naufragare i suoi sogni personali, e ha dovuto accantonarli per far fronte a esigenze più personali, che lo vedono padre e compagno. L'intreccio emerge sporadicamente in superficie come collante di una storia più grande, che non ha mai la grande e seriosa pretesa di porgersi come affresco socioculturale della città di Martin Luther King. Donald Glover, sceneggiatore, attore, produttore, ricrea sulla sua opera un mood silenzioso, quasi inesorabile e bloccato in un presente che cambia, ma che rimane sempre uguale a se stesso.

Ad accompagnarci sono le musiche di Childish Gambino, nome d'arte dello stesso Glover, che tra le altre cose è anche un cantante. In generale la soundtrack domina parecchio sulla scena, corollario di una storia che ha evidentemente al suo centro la cultura black. Cultura intesa anche come modo di vivere il rapporto con la contemporaneità, con lo star system che, in un ribaltamento tanto semplice quanto geniale, può permettersi di immaginare un Justin Bieber nero. Oppure, come in B.A.N., uno degli episodi più sperimentali dell'anno, addirittura un talk show immaginario con tanto di intermezzi pubblicitari fittizi e satirici che costruisce una bella ed esilarante riflessione sul politicamente scorretto.

Glover e gli altri protagonisti vivono dentro e al di fuori dei loro personaggi. Non si tratta di una quasi completa identificazione con il ruolo che rappresentano: non arriviamo probabilmente a Master of None e tantomeno a Louie, che osava molto di più. D'altra parte emerge in ogni istante la familiarità, il senso di appartenenza ad un contesto suburbano che è proprio e risalta anche senza caricarlo di attributi particolari. E qui il paragone va subito a The Get Down, che invece poneva fortemente l'accento su scenografie, ambienti, personaggi, perdendo però in naturalezza e coerenza interna.

Ci si affeziona da subito ai personaggi, alla scrittura, all'ambientazione. Ci si affeziona a queste vicende grottesche, ad una disperazione che non apparirà mai come tale, ma che anzi viene sottilmente filtrata tramite esagerazioni e assurdità varie. L'eco di un mondo che aspira ad essere altro e invece non può far altro che guardarsi allo specchio. E questa probabilmente è una riflessione più universale di quanto appaia.

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