Atlanta stagione 3: la recensione

Una stagione senza un filo fatta di episodi scritti benissimo conferma Atlanta come la serie afrosurrealista più interessante

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione della stagione 3 di Atlanta, disponile online su Disney+

Alla stagione 3 Atlanta è cambiato definitivamente e non è chiaro se sia un cambiamento definitivo. Questa serie, sviluppata e interpretata da Donald Glover, potrebbe tranquillamente fare del mutamento continuo e dell’instabilità la sua cifra, senza che questo levi nulla alla sua bontà, anzi. La prima e la seconda stagione in modi differenti hanno raccontato l’emergere del rapper Paper Boi, facendo intuire sempre di più una passione per la digressione che nella terza diventa sistema. Gli episodi sono quasi in pari numero digressione e racconto ed è complicato in alcuni casi capire cosa è cosa. Ma, di nuovo, è uno dei piaceri di questa serie da mezz’ora a puntata il fatto che ad ogni svolta non è chiaro che direzione stiamo prendendo.

Un viaggio quasi onirico tra follie e allucinazioni

Altra novità è che per questa terza stagione, a ribadire la passione per la variazione, gli sceneggiatori sono quasi tutti diversi per ogni episodio e Donald e Stephen Glover (che avevano scritto quasi tutte le puntate della prima stagione) si occupano solo di una minoranza delle 10 storie. E davvero sono 10 storie diverse accomunate da un’idea sola molto vaga: i bianchi sono pazzi. Paper Boi è in tournée in Europa tra Amsterdam, Londra, Parigi e Bulgaria con il suo manager (Earn), il suo braccio destro (Darius) e con loro c’è la ex di Earn, Van. Sono questi i 4 personaggi originali che popolano la stagione e che pretestuosamente sono in un continente più bianco del loro. Quella che per Masters Of None era stata una variazione simpatica e dolce (in Italia) per loro è un viaggio in un mondo di follie, sogni, allucinazioni.

Queste 10 storie infatti somigliano a 10 sogni e del resto è proprio un sogno ad aprire la stagione. La prima puntata imposta il tono afrosurrealista della stagione (come ricorda una grafica promozionale) con la storia sognata di un bambino afroamericano cacciato di casa dai genitori e assegnato dai servizi sociali ad una famiglia di due lesbiche bianche che, si scopre, ammassano bambini adottati, li fanno lavorare e vivere in un clima assurdo di convinzioni new age e regole senza senso. Sfiorerà la morte il protagonista e tornerà con il capo chino dai genitori che lo guarderanno come se gli avessero così dato insegnato una lezione. I bianchi sono matti e desiderano i neri ma non per ragioni di tolleranza, li desiderano perché gli servono. 

Molti film afrosurrealisti lo raccontano e del resto anche Jordan Peele (che di questa corrente è la punta più nota) affrontano così le nuove forme di razzismo, tramite il racconto del desiderio nei confronti del corpo nero. Non stupisce quindi che nel terzo episodio facciano capolino dei liberal inglesi bramosi di mostrarsi non razzisti come la famiglia di Get Out. Afroamericani artisti in ascesa che entrano in contatto con questo mondo di ricchi in cui dominano i bianchi ma in cui gli afroamericani li fregano sempre, come il ricco mecenate britannico che vive in una casa per entrare nella quale si passa per un insospettabile salotto di una famiglia povera (come fosse uno speakeasy), drenato continuamente da artisti afro. Uno così scemo da dire: "Il razzialismo mi fa impazzire".

Una stagione che a tratti disorienta

Si può insomma essere facilmente disorientati da una stagione che volutamente dà pochi punti di riferimento, che non ha un arco narrativo o una trama vera e propria ma è davvero una serie di episodi. La cura che c’è in ognuno tuttavia è la forza che spinge a vederne un altro ancora. Tutte le puntate sono come pendii scoscesi lungo i quali le storie scivolano verso il dramma con sempre maggiore velocità, fino ad arrivare (senza che ce ne accorgiamo) ad una slavina drammatica sempre convincente, sempre concentrata in poche immagini fortissime. Accade così nella bellissima quinta puntata in cui Paper Boi perde il cellulare ed è convinto lo abbia il figlio del proprietario dell’arena in cui ha suonato, lo torchia per scoprire una sensibilità inattesa e scoprire anche i propri problemi. Alla fine noi scopriamo chi l’aveva davvero preso. Lì sarà una canzone suonata dal vivo a dire tutto quel che c’è da dire.

Scenari surreali e guest star a sorpresa

Ma non c’è solo questo, ci sono almeno due puntate di pura fantasia che ipotizzano scenari surreali (o per l’appunto afrosurreali) in cui una volta gli afroamericani vengono autorizzati legalmente a chiedere oggi rimborsi fantascientifici agli eredi di chi aveva schiavizzato i loro antenati secoli fa, di fatto ribaltando il rapporto tra ricchi e poveri nella società (ed è bello che ci venga raccontato con grande senso del dramma dal punto di vista di un bianco mite e per nulla razzista ma la cui vita nondimeno viene distrutta dalle rivendicazioni economiche di una donna del ghetto); e un’altra volta la vita di un liceale bianco è distrutta dall’annuncio fatto da un miliardario in visita alla sua scuola, cioè che pagherà lui l’iscrizione alle università migliori solo per gli studenti afroamericani. Finirà a bruciare tutto per la frustrazione assiema ad un altro africano che non può accedere al bonus.

Se quindi la prima stagione era il regno del ghetto questa è ambientata nei luoghi più strani ed esotici (dal punto di vista di un americano) d’Europa. Con incontri con Liam Neeson (che interpreta se stesso) in cui tirare fuori le sue dichiarazioni reali di qualche anno fa che gli costarono quasi la cancellazione (ed è forte che nella serie Neeson faccia una versione di sé realmente razzista) e dire una frase cruciale: “La cosa migliore e peggiore di essere bianchi è che non devi imparre qualcosa se non lo vuoi”. O Alexander Skarsgaard (anche lui nei panni di se stesso) malato di sesso e di una tristezza inenarrabile. Sono sempre dei bianchi matti come tutti quelli che incontrano e come quasi diventa Van nell’ultima puntata. In crisi, priva di un’identità e determinata a trovarla in Amélie vivendo a Parigi. Si comporta come una bianca tra i bianchi, chiaramente matta, e ci vorranno le amiche di Atlanta per farla tornare alla ragione.

Alla fine può essere un esercizio sterile cercare una logica in questa serie di quadretti. Di certo è un mondo in cui i luoghi rimangono cruciali come sono sempre stati e in cui nel complesso il ritratto non è della vita tra afroamericani e bianchi ma dell’incontro e spesso scontro tra la cultura e l’identità afroamericana e quella molto più strutturata, solida e vincente (perché cementata da secoli di dominio) dei bianchi. In un mondo come quello europeo, non così attento e vigile sulle questioni razziali come quello americano, i personaggi si imbattono in blackface ampiamente tollerato, star cancellate, viaggi allucinati, timori di sfruttamento e location manager a cui non interessa granchè di niente. E sono sempre stupiti, esterrefatti e spiazzati da questi bianchi che sembrano non avere le loro stesse priorità.

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