Atlanta 2x10 "FUBU": la recensione

La recensione del decimo episodio stagionale di Atlanta

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Spoiler Alert
L'episodio di questa settimana di Atlanta contiene una delle rappresentazioni più crudeli e veritiere del contesto scolastico viste in televisione. Soprattutto perché riesce a condensare tutto in venti minuti completi, carichi di sfumature, come è appunto nello stile della serie di Donald Glover. Proprio il creatore della serie qui debutta come regista, e lo fa nell'ennesima puntata "chiusa" della serie di FX. FUBU è un brevissimo spaccato di vita, capace di narrare in una giornata, o poco più, un microcosmo di rapporti, prevaricazioni, norme sociali. Al termine di tutto, nonostante una chiusura molto drammatica, forse non ne sapremo tanto di più sui protagonisti, ma conosceremo molto meglio l'ambiente in cui sono cresciuti.

Tutto ruota intorno all'acquisto di una maglietta. Il giovane Earn chiede a sua madre di comprargliela, pronto a sfoggiarla con orgoglio a scuola l'indomani. Tutto inizialmente va come previsto, riceve dei complimenti, viene notato, ma gli eventi si capovolgono nel momento in cui Devin, un suo compagno di classe, si presenta con una maglietta quasi identica. Una delle due – quella di Earn – è falsa, e il bambino viene subito bersagliato di insulti da parte dei suoi compagni. Tanto era importante lo status rappresentato da quel capo di vestiario, quanto lo è la vergogna nello scoprire che si tratta di un falso. Anche da giovane, Earn pone come riferimento il cugino Al, a cui chiede una mano. Devin passa per quello che ha la maglietta falsa, e viene bersagliato di insulti. Scopriamo poi che il ragazzino si è suicidato.

Partiamo proprio dal finale. Atlanta si distingue per la capacità di raccontare emozioni profonde e affondare in considerazioni sociali argute anche senza bisogno di alzare la voce. E a dire il vero l'episodio potrebbe concludersi anche con il ritorno a casa di Earn dopo quel pesante giorno di scuola. La scrittura invece decide di andare avanti, di fare un passo ulteriore. Scopriamo che il ragazzino su cui è stata deviata la vergogna si è suicidato. L'intuizione di scrittura qui consiste nella mancata reazione alla notizia. O almeno di qualunque reazione visibile. Un ragazzino idiota ride all'annuncio (ma quanti adulti idioti e irresponsabili abbiamo visto finora?), qualcuno arriva in ritardo e non si rende conto, qualche parola di circostanza e la vita riprende. Perché così dev'essere.

Soprattutto, manca da parte di Earn e Al l'aggancio atteso alla notizia. Non c'è elaborazione, né senso di colpa, né ripensamento. Nulla, almeno ai nostri occhi. La vita, e questo vale sia per i ragazzini che per gli adulti di Atlanta, è negazione. Si tratta solo di spingere lo sguardo più in là, di riuscire a sopravvivere un altro giorno, senza caricarsi del peso del mondo. Quindi abbiamo la leggerezza con cui tutto questo contesto è narrato come normale, dovuto, con i suoi gesti di rabbia scomposti, il bullismo non come fenomeno assurdo le cui cause vanno rintracciate chissà dove, ma come norma sociale accettata. La prevaricazione non è quella del forte e stupido contro il semplice diverso, è un sistema al quale chiunque partecipa, e nel quale ognuno è chiamato a schierarsi o dalla parte dell'oppressore o dell'oppresso.

Sono piccoli drammi, anche sciocchi per un adulto, ma è un microcosmo di grande rilievo perché chi lo vive giorno per giorno lo trova importante. Non è un carcere, non è il faticoso mondo del lavoro dei protagonisti soliti di Atlanta, ma è qualcosa che condivide vari punti in comune con esso. Forse vale la pena di scriverlo chiaramente: questa seconda stagione di Atlanta è straordinaria.

La seconda stagione di Atlanta andrà in onda in Italia dal prossimo 17 maggio.

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