La recensione di Astolfo, in uscita nelle sale dal 20 ottobre, presentato alla Festa del Cinema di Roma
Gianni Di Gregorio ha girato un film unico. Di referenti e modelli ovviamente ne ha, come tutti, ma sono talmente triturati da un tono e un andamento personalissimo da diventare irriconoscibili e sciogliersi dentro un’atmosfera di eccezionale empatia. E tutto questo a dispetto di una trama di quelle che si possono trovare ovunque, anche nelle peggiori fiction televisive. Storia di un uomo che vive in affitto, viene sfrattato, torna al paese da dove ha origine la sua nobile famiglia decaduta e riapre un vecchio palazzo cadente di proprietà per avere almeno un tetto. Dentro trova un uomo che ci si era installato abusivamente, e lo tollera, a loro si uniscono un altro anziano del paese ex cuoco e poi un ragazzo venuto a riparare la cucina. Tutti vengono attratti nell’orbita di questa casa di uomini soli, fuori dagli schemi che si stringono e trovano calore. Poi ci saranno nuovi amori senili e beghe comunali con i vicini (dei preti). Tutti pretesti che contano poco e niente. Quello che
Astolfo mette in scena è il contrasto tra la permanenza dello spirito e l’ordinaria decadenza di una vita e del corpo che lo contiene.
Forse anche per questo nel grande processo di trasloco della commedia italiana in provincia questa gita fuori porta di Gianni Di Gregorio (uno degli ultimi rimasti in città) non sembra appartenere al trend, perché lo spostamento non è mai il punto, non è un rifiuto della modernità né un rifugiarsi in una vita più semplice. È un ritorno ai propri ricordi semmai e l’ennesimo ridimensionamento mesto. Astolfo usa come armi predilette la recitazione (spesso di attori non professionisti) e un gran gusto scenografico, e con queste rappresenta con meravigliosa naturalezza l’invincibile tendenza dell’uomo a vivere in branchi, a radunarsi in gruppi eterogenei dai quali ognuno trae forza anche nella mestizia. Come se le diversità dei singoli dessero più forza ad ognuno. Perché la verità, alla fine, è che Gianni Di Gregorio con il suo personaggio, tra film riusciti e film meno riusciti, ha creato un tipo umano che il cinema di solito non racconta, con il quale può dar vita a dinamiche e interazioni uniche, oltre proprio a rappresentare un mondo e un modo di stringere relazioni tra esseri umani che non esistono altrove ma di cui chiunque trova un pezzo dentro di sé.
Così in
Astolfo uomini diversi, più o meno stimabili, più o meno pregevoli, di certo un po’ derelitti rispetto alle donne che hanno o hanno avuto (sempre più sistemate e benestanti) si rispecchiano in un palazzo decadente come loro e mettono in mostra una virilità da 4 soldi così calorosa da nascondere in sé il segreto di una rinascita per chiunque. A questo si aggiunge nella terza parte uno stranissimo alito vitale (anche grazie al confronto con il mortifero del prete dirimpetto, ben interpretato con movenze da
Nosferatu). E così in questo film apparentemente arrendevole ma profondamente raffinato (incredibile come un finale abrupto aggiunga senso invece di sottrarne), dal contatto con gli altri nasce l’ultima cosa che era lecito aspettarsi: una grande vitalità per quanto dimessa e tutto sommato molto moderata, che è anche ricerca dei piaceri. Una forma di edonismo senile e signorile mai visto, un po’ goffo e ridicolo come impongono le commedie, ma vivo, indomito, insopprimibile.