Asteroid City, la recensione

Nel deserto di Asteroid City c'è il classico aggregato umano eterogeneo di Wes Anderson ma al minimo livello possibile di interesse

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Asteroid City, il film di Wes Anderson presentato in concorso al festival di Cannes

Di raccontare la società e il suo tempo a Wes Anderson proprio non va, non è quel tipo di cineasta. I suoi film esistono in un altro mondo (il suo) che funziona secondo le regole dell’animazione televisiva di una volta, un mondo che è privo di qualsiasi agitazione politica o tensione sociale (anche quando in The French Dispatch racconta di uno studente rivoluzionario, evita qualsiasi causa o pensiero realmente politici) e nel quale esistono solo le storie individuali. È un regista di sentimenti, uno che è stato bravissimo e ha cambiato per molti versi il modo in cui si parla di sentimenti nel cinema americano. Solo che non gli riesce più. Non che si sia stufato di fare cinema, anzi sembra che ad ogni film il suo impegno e la sua dedizione aumentino, è che non ha più l’interesse che aveva prima negli esseri umani.

Stavolta quello di Asteroid City è proprio il mondo di Chuck Jones, il deserto di Wile E. Coyote e Road Runner, con uno sfondo piattissimo e cactus isolati, banditi inseguiti dalla polizia e tre bambine che si muovono simmetricamente e camminano in fila come anatroccoli o una versione ordinata di Qui Quo Qua. È un’ambientazione teatrale in realtà, vediamo un dramma messo in scena e ogni tanto sentiamo cosa abbia da dirne l’autore che lo ha realizzato e il regista geniale che lo ha messo in scena. C’è così un doppio livello: quello del copione nel suo farsi e quello del copione messo in scena che noi vediamo come un film, quello degli attori e delle loro storie e quello dei personaggi che interpretano. Le prime sono accennate, le seconde mai approfondite.

Le tipologie umane di Wes Anderson sono quelle ma l’impressione è che abbiano esaurito ogni potenziale narrativo. Non hanno più l’impatto di prima e la sceneggiatura di Asteroid City non ha nessun interesse creativo nell’esplorare ciò che le caratterizza la delusione, lo sconforto, l’insoddisfazione, il sentirsi diversi e cercare qualcuno di simile da parte di bambini prodigio, insieme alle ambizioni di persone fuori dal comune che si scontrano con la difficoltà di essere felici. Le dinamiche base che hanno sempre retto il cinema di Wes Anderson non gli interessano più davvero nonostante continui a riproporle con il grado minimo di partecipazione, come se imitasse se stesso.

Intanto quelle che nei suoi primi film erano famiglie (reali o aggregate per lavoro) sono diventate comunità caratterizzate dal vivere o lavorare nello stesso posto. I cast corali si sono riempiti dei nomi migliori del cinema mondiale, nel vezzo unico nella storia del cinema di fare sempre film in cui qualunque attore, fino all’ultima comparsa, sia un volto noto. Questa sovrapresenza di star è il segreto commerciale di Anderson ma è diventata il suo limite maggiore. Attori grandissimi compaiono anche solo per poche scene e pure i più protagonisti dividono il tempo sullo schermo con tutti gli altri. Lo sanno e lo accettano ma è chiaro che in cambio i film devono dare loro scene cruciali e curare il personaggio di ognuno. Per dare rilievo e un senso a ogni singolo personaggio si annullano i reali protagonisti (in questo caso sarebbe stato il personaggio di Jason Schwartzman) e diluiscono i conflitti fino a che non ne rimane solo un accenno e nulla conta più. Conta il collettivo semmai, la foto di gruppo, il cast di star tutte agghindate “proprio come nei film di Wes Anderson”. Ma non era così prima, non è stato quello a renderlo uno dei cineasti più rilevanti della sua generazione.

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