Assassinio sull'Orient Express, la recensione

Confortevole, innocuo e pronto per la serializzazione, Assassinio Sull'Orient Express è un veicolo per il Poirot di Kenneth Branagh

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Esistono delle regole nel mettere in scena Assassinio sull’Orient Express, regole fissate dal successo della versione di Sidney Lumet del 1974, regole che Branagh dimostra di conoscere e di voler ampliare creandone di nuove.

Serve inevitabilmente un cast di star (c’è!), serve un Hercule Poirot meno famoso delle altre star (c’è!), serve un’ambientazione sfarzosa ma non se ne deve fare un film claustrofobico (c’è!) e soprattutto si deve girare intorno alla suspense senza mai davvero affrontarla, Assassinio sull’Orient Express è l’immagine di un thriller, un quadro di un thriller da ammirare da lontano, non un thriller vero in cui venire immersi (c’è!).

Le regole nuove che la versione di Kenneth Branagh introduce invece sono l’aggiunta di un po’ d’azione, di panoramiche, grandissimi scenari analogici aiutati da molto digitale a diventare quasi cartooneschi (nello splendore del 65mm), sequenze di un furioso treno in tempesta nella neve e un preciso senso dell’ambientazione per ogni dialogo importante. È facile accusare ogni film di Branagh di essere teatrale, ma è anche vero che qui come non mai sembra aver immaginato un piccolo allestimento teatrale per ogni dialogo, un piccolo palco, con oggetti di scena funzionali e uno sfondo significativo.

Il risultato alla fine sarà lo stesso di sempre, cioè un giallo da salotto, garbatissimo, molto coerente e fieramente d’altri tempi (al netto dell’azione posticcia aggiunta in maniera pretestuosa e delle inquadrature del treno da fuori, nulla più simile ad una foglia di fico). La promessa implicita all’inizio è che Poirot risolverà il mistero, che avremo il nostro colpevole e che nessuno spettatore uscirà turbato dal film.

Quel pochissimo che può dirsi imprevedibile in quest’adattamento che sembra desiderare tantissimo essere scialbo (vedendo il proprio desiderio esaudito), è come Branagh metta al centro di tutto Poirot. Invece che farne il traghettatore che è, la guida verso lo svelamento del vero protagonista (cioè il mistero), Poirot è l’eroe, ha un arco narrativo, inizia con delle idee e finisce con altre, cambia nel corso film e in questo si fa personaggio completo.

Proprio queste idee riguardo la giustizia e l’equilibrio nel mondo sono gli elementi più inverosimili di Assassinio sull’Orient Express. Lo sono per il loro contenuto manicheo e lo sono per come malcelano l’introduzione della possibilità di messa in serie di Poirot, cioè l’apertura di questo film ad altri film tratti da Agatha Christie che portino avanti la psicologia del detective belga. Nell’idea produttiva chiaramente non c’è nulla di male, ce n’è semmai nella maniera in cui Branagh crei un veicolo per se stesso svilendo tutti gli altri attori (anche l’eccelso Willem Dafoe è meno incisivo di altre volte). Nel frattempo Poirot diventa un eroe completo, in grado quasi di commuoversi, di essere ferito, di rischiare la vita e di guadagnarsi il favore del pubblico. Non proprio quel che descriveva Agatha Christie.

Il grande film di Natale che alla fine esce fuori è privo di qualsiasi ironia e senso del divertimento, ed è giocato più che altro sul contrasto tra la tantissima neve e il caldo degli interni, sull’opulenza esotica di un mondo di prime classi e nobiltà, sui pellicciotti e i baffi esagerati che viene voglia di toccare. Cinema da caminetto. Eppure nonostante gli elementi della lista ci siano tutti è davvero difficile, alla fine, giudicare Assassinio sull’Orient Express come un film riuscito. Anche immaginandolo solo come la rappresentazione di un giallo, anche volendolo intendere solo come un divertimento con i ritmi e gli svolgimenti d’altri tempi, lo stesso ha tutta l’aria dell’operazione insincera capace di ottemperare ai propri doveri ma priva di tutte quelle caratteristiche che fanno di un film qualcosa di appassionante.

Continua a leggere su BadTaste