Assassinio a Venezia, la recensione

Chiuso in un palazzo di Venezia che pare infestato, Assassinio a Venezia è libero dal dover seguire Agatha Christie e trova una personalità

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Assassinio a Venezia, il terzo film di Kenneth Branagh tratto da Agatha Christie in cui interpreta Poirot

Finalmente un po’ di grazia! Dopo la brutalità meccanica delle ambientazioni di Assassinio sull’Orient Express e quella slavata, inutile e dozzinale di Assassinio sul Nilo, ora al terzo film tratto da Agatha Christie Kenneth Branagh si libera da molte costrizioni e molti paletti e trova finalmente una dimensione ricercata con gusto. Stavolta Poirot è a Venezia e di nuovo si trova in un ambiente chiuso da cui nessuno può scappare (un palazzo sul canal Grande durante una tempesta che impedisce a tutti di uscire) con l’inevitabile omicidio. È tutto un altro mondo rispetto all’ambientazione di Poirot e la strage degli innocenti, il racconto che dovrebbe fare da base all’azione stavolta, ma del resto è anche tutto un altro set di personaggi e un’altra trama rispetto alla carta.

Poirot è a Venezia perché non vuole più indagare, si è anche fatto una guardia del corpo (Riccardo Scamarcio) che lo difende dai richiedenti aiuto che lo inseguono come i Beatles in Help!, l’unica ad attirarlo è una scrittrice di romanzi gialli il cui protagonista è ispirato proprio a lui, a una seduta spiritica. L’obiettivo è che Poirot ne sveli la ciarlataneria ma tutto sembra essere architettato per convincere anche lui, che stancamente smaschera i piccoli trucchi della medium fino a che non arriva il rituale omicidio. Da lì parte un film che gioca con l’italian horror classico e i suoi luoghi comuni di messa in scena (dai colori degli occhi dei fratelli, all’uso delle soggettive, le morti creative, le luci colorate espressive, le nenie infantili in chiave inquietante…) coinvolgendo anche Poirot nelle visioni di fantasmi.

Assassinio a Venezia è un film di ambienti stretti, al contrario dei primi due che invece erano estremamente ariosi, è un film di scene notturne, di lumi di candela e inquietanti ombre. Venezia da esportazione in un certo senso ma meno di quel che si potrebbe temere, Branagh infatti più che alle cartoline pensa ai film di Argento o A Venezia un dicembre rosso shocking (che è comunque una forma di immaginario da esportazione) e ne sfrutta le trovate migliori con abilità. Perché stavolta il suo problema è il non potersi affidare agli intrecci di Agatha Christie se non alla lontana. Dunque per dare dinamismo a quella che sarebbe una normale sequenza di interrogatori, domande e risposte, allora inventa questi richiami horror, lavora di montaggio alternato tra due diverse conversazioni, sfrutta la recitazione comica e anche quella esageratamente drammatica. Tutto ci distrae da un testo non eccezionale e sposta l’attenzione da ciò che viene detto a ciò che accade mentre viene detto.

Non è il giallo classico (in cui le battute sono lame affilate) ma è il giallo da blockbuster, in cui i valori produttivi e la capacità di stordire sostituiscono la sottigliezza della deduzione e il gioco con le ipotesi dello spettatore (inutile formularne). Ancora di più: è il giallo da proprietà intellettuale e da universo narrativo, in cui la singola storia serve a esplorare l’evoluzione e il mondo del personaggio. Tina Fey (grande scelta) qui interpreta un personaggio che stava già nel racconto originale, la scrittrice di gialli, ed è usata con grande intelligenza come nostro avatar. Lei vuole che Poirot torni a indagare, lo affianca senza però giungere alle sue conclusioni e (un po’ come Omicidio nel West End) ed è sempre pronta a dare la colpa al personaggio che in quel momento sembra averla. Non è un personaggio ma un aiutante, una funzione narrativa strutturata che amplia l’universo narrativo del protagonista spiegandoci, tra le altre cose, anche l’origine della sua fama.

Continua a leggere su BadTaste