Assandira, la recensione | Venezia 77

Strutturato come noir ma pieno di variazioni, idee e sorprese, Assandira usa il genere per raccontare l'incidente che fa scontrare chi siamo con chi eravamo

Critico e giornalista cinematografico


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Per tutta la mia vita mi hanno educato a non credere a nulla. A tenermi pure il desiderio”. Potrebbe essere una frase di Le catene della colpa o di La fiamma del peccato, tanto illustra bene i principi del noir classico: inganno e attrazione sessuale. Il potere del sesso che sballa tutto e fa impazzire la gente, inquina gli animi, li infiamma e alla fine perde le persone rette. Invece è una delle frasi che si agitano nella mente di Costantino, il protagonista di Assandira. La sentiamo nel suo voice over, mentre rievoca gli eventi che hanno portato alla tragedia che vediamo nella prima scena. Un incendio ha devastato la sua proprietà e suo figlio è morto. Sul campo c’è un magistrato che deve capire cosa è successo e somiglia terribilmente a Pietro Germi in Un maledetto imbroglio, primo di tanti sentori da cinema italiano a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60.

Quel che è successo lo capiremo lungo tutto questo bellissimo quinto film di Salvatore Mereu che adatta l’omonimo romanzo di Giulio Angioni. Osservando un anziano pastore sardo, un uomo tradizionalista, granitico e di scarse parole, cedere sotto i colpi del desiderio, cedere a richieste a cui mai pensava avrebbe ceduto e far cose di cui non capisce nemmeno completamente il senso, fino a “scambiare l’ariete con la siringa”, come dice lui. Tutto orchestrato da una femme fatale fuori dai canoni, abbondante e rassicurante, invece che spigolosa e altera come capita di solito. Materna e accogliente invece che distante e algida ma soprattutto libera, consapevole della propria potenza sessuale e disposta ad utilizzarla.

Lei e il suo fidanzato, cioè il figlio di Costantino, lo convincono a trasformare il suo appezzamento e la sua casa in un agriturismo, lo convincono a creare una Sardegna da cartolina, fatta di costumi tipici e messe in scene tradizionali per i turisti. Per soldi. “Quello che fai può essere interessante per chi non è di qui” gli viene detto (e sembra la frase che ha giustificato decenni di cinema sardo tutto pastori e pecore).

Questa è solo l’aperitivo del godimento verso il quale Assandira trasporta. Perché Mereu a sovrappone alla storia un altro strato, uno che non sta nelle parole ma nel rapporto tra personaggi e paesaggi (che era quello che rendeva mostruosa la sua commedia precedente, Bellas Mariposas), fino a rendere la sensazione da folk tale che si stia sfrugugliando qualcosa di ancestrale, prendendo in giro la tradizione. Stanno giocando con il fuoco, con la testa di un uomo che è tutt’uno con quell’ambiente.

Fin qui arriva l’intreccio noir (il cui esito scopriamo non alla fine, ma a metà per poi gettarci ancora più a fondo nell’abisso di Costantino). Il vero colpo clamoroso di un film che ha la scorrevolezza del cinema italiano degli anni ‘50, animato dal contrasto tra ciò che siamo stati e ciò che stiamo diventando come il cinema degli anni ‘60, è la doppia faccia del suo protagonista: Gavino Ledda, istituzione della cultura e lingua sarda, autore di Padre Padrone (il romanzo). Eccezionale.

Dei pastori muti e scostanti, burberi e sempre inclini a dire “No”, conosciamo solo la facciata e Costantino non è diverso, è austero e riservato. Al magistrato che gli fa le domande dice poco e niente, e quel che dice non è mai chiaro. L’idea di cinema sta tutta nel fatto che noi però sentiamo i suoi pensieri e quelli sono un altro mondo, un altro commento ai fatti e alle immagini, fatto di inibizioni, di desiderio di parlare e dire ma di fatica nell’affrontare l’indicibile. Come in Jules e Jim la voce narrante schiude altri sentimenti rispetto al corpo che li frena e nasconde, così tenera e morbida solo a noi confessa l’inconfessabile, che non sono solo i fatti ma l’abisso noir delle passioni, così chiaro ed evidente che non è difficile a quel punto riconoscerlo in noi stessi.

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