Asakusa Kid, la recensione

La storia particolare di una figura particolare è messa in scena per somigliare a mille altre. Eppure alla fine qualcosa Asakusa Kid lo centra

Critico e giornalista cinematografico


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Asakusa Kid, la recensione

Per raccontare gli esordi di una delle figure più particolari dell’intrattenimento giapponese, Takeshi Kitano, è stato fatto (con poca sorpresa a dire il vero) un film estremamente convenzionale. È l’adattamento dell’omonimo libro in cui lo stesso Kitano raccontava della propria formazione da comico nel quartiere di Asakusa, in uno strip bar nel quale si esibiva. Il film riprende quella storia e la drammatizza, puntando molto sulla figura del suo mentore Senzaburo Fukami, comico vecchio stampo in tempi in cui era ormai superato dalle nuove routine ma da cui Kitano impara etica, lavoro e modi di vivere.

Non è esattamente quel che è contenuto nel libro, che si sofferma molto di più sulle routine e sul contesto, su cosa fosse la comicità da cui ha imparato, ed è semmai una storia più amichevole e tenera, in cui emergono i personaggi marginali e il rapporto con il maestro. Un classico delle dinamiche giapponesi. Così accade che una storia raccontata in modi poco convenzionali (che non stupisce da Kitano) diventa nel film una raccontata in modi molto più convenzionali. La nascita del duo comico Two Beats, che è stato l’inizio della fortuna televisiva di Kitano, è messa in prospettiva con il tradimento del lavoro per il suo maestro che si esibiva in un teatro squallido per pochissimi spettatori disprezzando il fatto che i comici stanno andando sempre di più in televisione.

E questo è il secondo elemento fortemente tradizionale: una storia di modernizzazione in cui un mondo guarda il proprio tramonto mentre uno nuovo prende il suo posto. Della rivoluzione comica di Kitano non c’è traccia (come del resto c’è poca traccia di comicità nel film), non è quello che interessa al film che invece di una figura particolare vuole fare un personaggio come tanti, uno che impara il mestiere fino a che non arriva il momento di uccidere (metaforicamente) il proprio padre e poi andarlo a trovare una volta avuto il successo.

E paradossalmente proprio quella parte lì, quella finale, tenera e amara insieme, è quella più riuscita. A quel punto, dismessa ogni velleità di parlare davvero di Takeshi Kitano, il film immerge entrambe le mani nel classico e riesce a toccare molto con le dinamiche tra maestro e allievo, e con la constatazione di un mondo di perdenti.

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