Asakusa Kid, la recensione
La storia particolare di una figura particolare è messa in scena per somigliare a mille altre. Eppure alla fine qualcosa Asakusa Kid lo centra
Per raccontare gli esordi di una delle figure più particolari dell’intrattenimento giapponese, Takeshi Kitano, è stato fatto (con poca sorpresa a dire il vero) un film estremamente convenzionale. È l’adattamento dell’omonimo libro in cui lo stesso Kitano raccontava della propria formazione da comico nel quartiere di Asakusa, in uno strip bar nel quale si esibiva. Il film riprende quella storia e la drammatizza, puntando molto sulla figura del suo mentore Senzaburo Fukami, comico vecchio stampo in tempi in cui era ormai superato dalle nuove routine ma da cui Kitano impara etica, lavoro e modi di vivere.
E questo è il secondo elemento fortemente tradizionale: una storia di modernizzazione in cui un mondo guarda il proprio tramonto mentre uno nuovo prende il suo posto. Della rivoluzione comica di Kitano non c’è traccia (come del resto c’è poca traccia di comicità nel film), non è quello che interessa al film che invece di una figura particolare vuole fare un personaggio come tanti, uno che impara il mestiere fino a che non arriva il momento di uccidere (metaforicamente) il proprio padre e poi andarlo a trovare una volta avuto il successo.