As Bestas, la recensione

Contadini da una vita e contadini per idealismo si scontrano nella più naturale delle battaglie che rivela la natura animalesca dell'uomo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di As Bestas, il film di Rodrigo Sorogoyen presentato alla Festa del cinema di Roma

Quello che abbiamo in più rispetto agli animali è il ragionamento e per questa ragione quando dobbiamo domarli lo facciamo con l’intelligenza, con gli strumenti che costruiamo o con tecniche che ci consentono di non competere con loro sul terreno della pura forza. Per questo quando all’inizio di As Bestas vediamo degli uomini al rallentatore (che idea!) atterrare dei cavalli senza altri strumenti, solo in un corpo a corpo folle (uno contro uno o tre contro uno), è un colpo. Quello è lo scenario del film, quello di uomini che pongono la forza al primo posto e che si mettono seriamente sul medesimo piano delle bestie. In quel mondo (monti spagnoli della Galizia) arriva una coppia francese, agricoltori come gli altri della località ma in modi sostenibili, con idee diverse e un background diverso, ristrutturano casali gratuitamente per ripopolare le zone. Hanno studiato, fanno quel che fanno per passione con dei soldi alle spalle.

Quella suggestione visiva incredibile con cui il film è iniziato torna in mente quando ai locali viene proposta l’installazione di pale eoliche da un’azienda norvegese in cambio di soldi. Quasi tutti dicono di sì, vogliono i soldi e li vogliono subito. I francesi invece si oppongono. I rapporti già precari con queste persone che hanno la faida nel cuore proprio si rompono in un attimo e iniziano tensioni insostenibili, screzi, cattiverie, minacce, violenze. Come bestie. Non è la prima volta che vediamo questo tipo di contrasti ma già i corpi scelti sono tutto. C’è da una parte la montagna, cioè Denis Menochet, francesino solo di nomignolo, in realtà un gigante dal minaccioso occhio a mezz’asta; dall’altra il temibile fisico scavato come roccia di montagna di Luis Zahera. Entrambi sono scelti e diretti da Sorogoyen per spaventare.

Tutta questa tensione latente così forte, tutte le vite vissute che non ci sono state raccontate, il futuro che ognuno immagina oltre agli eventi che abbiamo visto nel film, tutti insieme verranno al pettine verso metà in un dialogo ripreso in un’unica inquadratura eccezionale, uno nel quale sì respira il fiato e il ringhiare sommesso, in cui ci si da fermi, a le parole. È uno degli apici di un film di scontri tra esseri umani (un altro sarà quello madre/figlia), in cui la violenza è ovunque e passa da un uso calibratissimo delle immagini. Non solo i corpi contrapposti che sono pure incarnazioni di livore, ma anche una passione liberatrice per le iniezioni di genere in questa storia drammatica. Nell’apice di violenza un movimento di camera a stringere sempre più vicino al protagonista sarà usato per sottolineare cosa stia accadendo, i fuori campo saranno per tutto il film l’arma della tensione e la composizione delle inquadrature è sempre maniacale.

Grazie al cielo c’è Sorogoyen! Qualcuno che sembra così dedito al cinema da studiare visivamente ogni momento, progettare le sue svolte di sceneggiatura a partire da come possono essere mostrate e racconta tanto una storia con la trama quanto una (diversa) con le immagini. Perché questa è una trama di poveri e ricchi, di mondi diversi che convivono nei nostri paesi e che sono sempre pronti a scontrarsi, livorosi. Mondi tra i quali Sorogoyen non ha il minimo dubbio su chi scegliere o da quale parte stare (ed è davvero rinfrescante vedere per una volta qualcuno che non ha sudditanza per i marginali ma li teme tanto quanto li compatisce, come insegna Non aprite quella porta). Tuttavia la storia raccontata dalle immagini è quella dell’unione dell’uomo con una natura priva di poesia, come ne è priva l’agricoltura e una vita intera di schiena spaccata. Nelle immagini c’è solo odio, caos, disordine, povertà, livore e rabbia animalesca. La storia degli animali come bestie.

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