The Artist - la recensione

Nel 2011, il regista francese Michel Hazanavicius decide di proporci un film muto in bianco e nero. Premiato a Cannes per il migliore attore, The Artist è un autentico gioiello...

Condividi

Che The Artist fosse un film rischioso, fin dalle premesse, era sotto gli occhi di tutti.

Non soltanto perché nel 2011 è difficilissimo proporre al pubblico una pellicola muta in bianco e nero (e prima ancora trovare un produttore disposto a finanziarla), ma anche e soprattutto perché rifacendosi a un modello come quello del cinema anni '20, il rischio di cadere nella parodia involontaria o nell'esercizio di stile è dietro l'angolo.

Invece, il regista francese Michel Hazanavicius riesce nell'impresa di fondere tradizione e originalità, comicità e melodramma in un film muto assolutamente brillante. Alla base ci sono una volontà di osare e una ricchezza di idee che oggi forse solo il cinema francese ci offre, ma soprattutto c'è la mano esperta di un regista che conosce perfettamente il proprio mestiere.

E così, la mancanza di dialoghi non è un semplice artificio stilistico per rifarsi al cinema pre-sonoro, ma una scelta matura del regista che, come il Sylvain Chomet dell'Illusionista e Appuntamento a Belleville, sa che il cinema è prima di tutto l'arte di raccontare una storia per immagini.

Senza parole, Hazanavicius riesce a divertire e a commuovere, trovando ogni volta modi sorpendenti e inaspettati per spiegarci la situazione. Penso alla messa in scena di un sogno, con un utilizzo geniale del sonoro, o a come i sentimenti fra i due protagonisti si svelino in una bellissima sequenza di metacinema.

Se proprio dobbiamo trovare un difetto, alcune trovate sono prevedibili e in oltre 100 minuti di durata qualche volta l'attenzione cala, ma sono dettagli facilmente perdonabili considerando che, prima che possa mai diventare noioso, il film ci sorprende con qualche nuova scena deliziosa.

E anche le poche righe di dialogo scritto, immancabili in ogni film muto che si rispetti, non arrivano mai a caso e sono sempre battute perfette e puntuali.

Ma arriviamo all'altro fondamentale artefice della riuscita del film: Jean Dujardin è infatti il protagonista migliore che si potesse sperare. L'attore incarna perfettamente le qualità del divo d'altri tempi, e sembra uscito davvero da una pellicola di quegli anni, solo con più ironia e disillusione. Affascinante, sicuro di sé, divertente, Dujardin è davvero in parte e non sbaglia mai, risultando perfetto anche quando - recitando nel film nel film - c'era il rischio di esagerare con l'overacting.

La protagonista femminile ha invece il volto di Berenice Bejo, attrice francese lanciata nel 2001 dal Destino di un cavaliere. Ora, non si può proprio dire che non sia brava e frizzante, ma con Dujardin di fianco sembra che le manchi l'esperienza per fronteggiarlo in un ruolo così importante. Se a lui interpretare il divo risulta naturale, lo sforzo che lei ci mette per tenergli testa è quasi visibile, senza contare che le manca lo charme retrò di una diva alla Greta Garbo.

L'assenza di dialogo permette anche al regista di coinvolgere in una produzione francese alcuni importanti attori americani in alcuni ruoli secondari. Carino e macchiettistico il cameo di John Goodman, meno convinto quello di James Cromwell, inutile quello di Malcolm McDowell.

Menzioni speciali anche per fotografia e scenografie, che sfruttano al meglio un appropriato formato in quattro terzi.

Costato 13 milioni di dollari, il film dovrebbe diventare un buon successo in Francia, vista la fama che il regista si è precedentemente costruito con la saga OSS 117 (la versione intelligente di Austin Powers), che vedeva protagonista sempre Dujardin. Speriamo che gli evidenti limiti commerciali del film non impediscano al pubblico di andarlo a vedere anche nel resto del mondo...

Continua a leggere su BadTaste