Artemis Fowl, la recensione
Ecco la recensione di Artemis Fowl, il film fantasy diretto da Kenneth Branagh e con un ricco cast disponibile su Disney+
La regia di Kenneth Branagh prende le mosse dal mondo fantastico ideato dallo scrittore Eoin Colfer, ma se ne distacca sin da subito perché, alla fedeltà rispetto alla linea tracciata dal romanzo, viene preferito un pastiche di atmosfere, situazioni e personaggi derivanti dai vari capitoli della saga (sono qui sovrapposti il primo e il secondo libro).
Adattare un’opera da un medium (libro) ad un altro (cinema) non è un’equazione matematica. Il cinecomic l’ha capito da tempo, riprendendo a grandi linee le run più celebri come concept ma, all’interno di esso, variandone l’intreccio di trama. Anche Artemis Fowl non vuole essere una copia del percorso letterario: certo, è chiara l’ambizione di essere l’inizio di un viaggio pensato per essere articolato in più puntate proprio come il libro, tuttavia il risultato è abbastanza sconfortante. Il film è stato vittima di numerosi slittamenti di data, non è dato sapere se legati a effettivi problemi produttivi. Inizialmente prevista nell’agosto del 2019, la sua uscita è stata rimandata di ben un anno dopo l'acquisizione di Fox da parte di Disney. L’emergenza Coronavirus ha poi portato alla decisione di distribuire il film direttamente sulla piattaforma Disney+ e, paradossalmente, il piccolo schermo risulta essere il luogo di visione ideale per un film che a fatica avrebbe retto la sala cinematografica.
Cercare un oggetto, trovare alleati, salvare la situazione: questo è il meccanismo narrativo attorno al quale si struttura il film. È sicuramente molto semplice, ma funzionale a dare il via all’avventura del bambino prodigio. Eppure a deludere è proprio la caratterizzazione del protagonista: Artemis è super intelligente, ma mai nel momento giusto (come se le sue abilità si attivassero e si spegnessero sulla base delle esigenze di suspense), è distaccato dal mondo in maniera quasi ascetica, e quindi di difficile empatia per lo spettatore. Inoltre, appena si inizia a intravedere la forza del personaggio, il film svolta e se ne disinteressa, dedicando il restante screen time quasi interamente alla trama di Spinella Tappo, decisamente più riuscita e “umana”.
Si avverte un gran lavoro fatto in sede di montaggio per mantenere alto il ritmo, un tentativo apprezzabile e solo in parte riuscito perché il film scorre rapido, ma non è mai fluido e si ha l’impressione che molte scene siano rimaste sul pavimento della sala di montaggio data la velocità con cui si passa da uno stato emotivo all’altro. Come se chi si muove all’interno dello schermo avesse la memoria così corta da dimenticarsi, nel giro di un campo e contro-campo, l’ansia o la gioia che stava provando. È un peccato perché, nonostante tutto, si vorrebbe vedere di più di un mondo che, chiaramente, è impostato per espandersi maggiormente nei sequel, ma non ci viene mai dato nemmeno un assaggio. Manca infatti tutta l’opera di world building a sostenere l’operazione, manca un piano produttivo che vada oltre il secondo capitolo, e che guardi al terzo, al quarto… Nessun oggetto, ad esempio, viene lasciato nel mistero, tutto viene spiegato nel dettaglio, nessun elemento di scena suggerisce la presenza di altro oltre a quello che vediamo inquadrato. A latitare è proprio la piacevole sensazione di avere visto solo una minuscola parte di un mondo sconfinato. Forse introdurci in questo universo con un film quasi interamente di assedio non è stata una scelta che ha reso le cose facili alla regia di Kenneth Branagh, un autore capace che, questa volta, scompare nell’anonimato.
Ad Artemis Fowl avrebbe giovato una divisione più netta (a livello di fotografia e scenografie) tra il reale e il fantastico, per lavorare di più sul senso dello stupore di una realtà distorta. A livello di rappresentazione delle creature magiche, dopo un iniziale momento spiazzante, si accetta con facilità la sua natura derivativa tanto che, forse, Artemis Fowl sarebbe stato un film molto più impattante se fosse arrivato 15 anni fa. Oggi tutto sembra già visto in altri film, da Men In Black (gli oggetti e i costumi) a Le cronache di Narnia (il tono) fino a Bright (il design dei Goblin). La componente fantasy, che vive nella continua scoperta, nel confronto con l’altro, il diverso, il meraviglioso, viene costantemente spuntata da questa mancanza di un tono proprio. Ed è un vero peccato perché il fantasy è, e resta, un genere fondamentale per la settima arte. In un anno dove la realtà ha colpito così duramente, i “racconta storie” (di fantasia) dovranno ritrovare la forza e il coraggio di guardare al cinema che sarà tra dieci anni senza più adagiarsi a riprodurre ciò che è stato quindici anni fa.
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