Arrivederci Professore, la recensione

Il piacere di liberarsi da ogni convenzione è in Arrivederci Professore la più grossa delle convenzioni del cinema americano

Critico e giornalista cinematografico


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Come noto non esistono altri professori universitari che non siano i professori di letteratura inglese. Il cinema non li concepisce. All’università si insegna solo letteratura, altre materie come ingegneria civile, biologia o diritto non sono contemplate, non sono raccontate, non sembrano interessare a nessuno. Invece letteratura la insegnano stropicciati uomini affascinanti, forse un po’ sciatti (anche se in questo caso un abbigliamento banalmente elegante è la cifra che distingue il protagonista) ma con grandi passati e una buona tendenza all’autodistruzione.

Stavolta però il cancro ha preceduto le azioni del professor Richard. Nella prima scena scopre di averne uno ai polmoni. Stadio terminale. Un annetto di vita. La sua esistenza cambia e, disperato, si getta vestito nel laghetto della facoltà, segno della perdita di freni inibitori. Cominciamo male.
In seguito prende coscienza di poter vivere diversamente, libero da ogni costrizione. Ha così una conversazione sincera con la moglie che lo tradisce e poi, in classe, si sbarazza degli studenti che a dire suo non meritano le sue lezioni (cioè chi vuole studiare business, chi non ha letto mai un libro per piacere e chi non ha voti alti) e zittisce una femminista svelandone l’inconsistenza.

Tutto ciò vorrebbe essere liberatorio e forse, per qualcuno, potrebbe anche esserlo, non fosse che poi Arrivederci Professore è così ordinario da finire ben presto nei territori molto poco liberatori e molto tradizionali dei buoni affetti e delle buone regole. L’impressione insomma è che ci sia dietro tutto questo sciogliere di legacci un conformismo anche maggiore di quello che lo costringe. Alla fine tutta la libertà promessa si tradurrà in qualche bacio rubato (fatto comunque come screzio a qualcuno che se lo merita) e del sesso occasionale (una volta) in un bagno. Per il resto, come prevedibile, la parabola finirà a prediche, a prediche in faccia proprio.

Questo film disastrato dalla circolazione limitata anche in patria (più vicino all’home video che alla buona distribuzione in sala) sarebbe un veicolo scalcinato e maldestro per la tramontante stella di Johnny Depp, una volta tanto con poco trucco e (quasi) la sua vera faccia. Tuttavia sembra di intuire che se la storia di una persona che in punto di morte finalmente capisce di poter fare come vuole e si ubriaca regolarmente, felice di farlo, è accettabile in America, da noi suoni ancor meno affascinante e liberatorio.

Addirittura, in un finale delirante con luce enfatica che filtra tra le nubi, un cane che non avevamo mai visto prima impedirà al professore di meditare sul suicidio in una specie di timidissima citazione di Umberto D. che non può funzionare alla stessa maniera in un film su un uomo che comunque morirà di lì a poco.

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