Arrested Development (quinta stagione, seconda parte): la recensione

Le nostre impressioni sulla seconda parte della quinta stagione di Arrested Development

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Questa seconda metà della quinta stagione di Arrested Development è la parte conclusiva della lunghissima coda della serie su Netflix. La serie di Mitchell Hurwitz è stata riportata indietro nel 2013 con una stagione evento che presentava una cronologia molto inusuale, anche per gli standard della serie. In seguito veniva confermata per una quinta stagione, anticipata da un rimontaggio più lineare della quarta. La quinta stagione, ambientata nel 2015, è infine arrivata in due segmenti da otto episodi ciascuno, il primo distribuito nel maggio del 2018, il secondo pochi giorni fa.

Dalle tre stagioni classiche ad una stagione evento a due microstagioni, la portata dissacrante dello show è stata quindi diluita sempre più, un trattamento che non ha fatto molto bene alla serie. Questo blocco finale, con la sua formula bizzarra – utilizzata già per Unbreakable Kimmy Schmidt – riprende tutti i piccoli problemi della prima metà di stagione e li stende sulle otto puntate. Non è facile riprendere contatto con l'intreccio e con lo stile della serie, che però da parte sua inserisce continuamente i classici spiegoni divertenti narrati da Ron Howard (ma sempre di spiegoni si tratta). Il risultato è uno show che fatichiamo a lasciar andare, del quale non vorremmo mai fare a meno, ma che ripete se stesso e non mette a segno tutti i suoi colpi.

Ad esempio, qui ci sono una serie di storyline legate ai loro personaggi che si incastrano con la più ampia trama stagionale. Gob deve far finta di essere omosessuale dopo un numero di magia andato male (ma finge davvero?), Tobias ha la sua nuova famiglia a cui badare, Maeby continua a fingere di essere una donna anziana, George Michael ha la sua relazione con Rebel, Michael si impiccia negli affari del figlio, George e Lucille rimangono legati alla faccenda della costruzione del muro, Buster è fuggito di prigione e deve affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Lindsay è praticamente assente. Tutte queste storie trovano il modo di incastrarsi l'una nell'altra, con Michael che – come ci viene ripetuto da sedici anni – deve fare di tutto per tenere insieme la famiglia.

Le storyline secondarie funzionano meno del solito. Per otto puntate sono piccole variazioni sullo stesso malinteso o lo stesso problema, a volte già esplorato nella prima stagione. Le gag con Tobias, Maeby e Gob soffriranno un po' a un certo punto, ma va detto che l'energia di Will Arnett risolleva sempre ogni momento in cui il suo personaggio è in scena. C'è una piccola novità che riguarda quelli che potremmo definire impropriamente come flashback, ma non sveliamo troppo. Arrested Development per il resto non può evitare di abbracciare sempre più la sua parte metanarrativa. Un esempio è la battuta sul muro al confine, passata da storyline che prevedeva il futuro a gag sul fatto che gli eventi della serie, ambientata nel 2015, sono stati abbondantemente superati dalla realtà.

Inscindibili dalle prime otto puntate, questi otto episodi ne rappresentano la logica conclusione. Nel complesso è stata una buona stagione, non brillante come quelle degli esordi, sicuramente meno esplosiva e creativa. Più che un addio, si tratta di una lunga passerella sui personaggi storici della serie, sulle loro mancanze e sui loro egoismi. Non c'è nessuna lezione da apprendere, e anche se fosse nessuno la imparerebbe mai. Gli errori commessi sono sempre gli stessi, e così ogni soluzione è solo la quiete temporanea prima della prossima tempesta. Per dei personaggi così, e per una serie così, non esiste un finale che possa dirsi definitivo, ma solo un eterno presente in cui Michael Bluth fuggirà per sempre solo per tornare ogni volta dalla propria famiglia.

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