Arrested Development (quinta stagione, seconda parte): la recensione
Le nostre impressioni sulla seconda parte della quinta stagione di Arrested Development
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Dalle tre stagioni classiche ad una stagione evento a due microstagioni, la portata dissacrante dello show è stata quindi diluita sempre più, un trattamento che non ha fatto molto bene alla serie. Questo blocco finale, con la sua formula bizzarra – utilizzata già per Unbreakable Kimmy Schmidt – riprende tutti i piccoli problemi della prima metà di stagione e li stende sulle otto puntate. Non è facile riprendere contatto con l'intreccio e con lo stile della serie, che però da parte sua inserisce continuamente i classici spiegoni divertenti narrati da Ron Howard (ma sempre di spiegoni si tratta). Il risultato è uno show che fatichiamo a lasciar andare, del quale non vorremmo mai fare a meno, ma che ripete se stesso e non mette a segno tutti i suoi colpi.
Le storyline secondarie funzionano meno del solito. Per otto puntate sono piccole variazioni sullo stesso malinteso o lo stesso problema, a volte già esplorato nella prima stagione. Le gag con Tobias, Maeby e Gob soffriranno un po' a un certo punto, ma va detto che l'energia di Will Arnett risolleva sempre ogni momento in cui il suo personaggio è in scena. C'è una piccola novità che riguarda quelli che potremmo definire impropriamente come flashback, ma non sveliamo troppo. Arrested Development per il resto non può evitare di abbracciare sempre più la sua parte metanarrativa. Un esempio è la battuta sul muro al confine, passata da storyline che prevedeva il futuro a gag sul fatto che gli eventi della serie, ambientata nel 2015, sono stati abbondantemente superati dalla realtà.