Arrested Development (quinta stagione, prima parte): la recensione
La recensione della quinta stagione di Arrested Development, disponibile su Netflix
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La storia riprende esattamente dal caos generale del finale della quarta stagione. Lucille 2 è sparita, George Michael ha picchiato suo padre, GOB è presidente della compagnia, più altri vari disastri da sistemare. La scrittura ignora il passaggio del tempo nella realtà, proiettando tutti i protagonisti in un passato recentissimo – eppure con alcune differenze importanti – e con il quale si può giocare a più riprese. Per una serie così metatestuale, è un'occasione troppo ghiotta poter citare la costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico, un'idea di sceneggiatura pensata nell'era Obama che poi ha avuto risalto nella realtà nel corso della campagna elettorale di Trump. E fa sorridere il riferimento ad una challenge su internet – figli che picchiano i padri – che già sembra più un prodotto dei nostri giorni.
C'è sempre un fortissimo senso del grottesco in questa vicenda che preme l'acceleratore sulla presenza nella storia di Ron Howard e della sua famiglia (compresa la "figlia acquisita" Isla Fisher). Il regista e il mondo che si porta dietro sembrano uscire fuori dalla parodia dei Simpson – la scena in cui Howard riceve due sacchi di soldi per dirigere un film dalla trama improbabile – ma tutto è in puro stile Bluth, e quindi funziona. Ci sono al tempo stesso personaggi più sacrificati di altri. Gob riappare per bene solo nel finale, con la sua sottotrama in cui lo vediamo interagire con la guest Ben Stiller, mentre Lindsay è praticamente impalpabile. Poteva esserci qualche difficoltà legata all'apparizione di Jeffrey Tambor, dopo le polemiche degli ultimi mesi, ma in realtà il suo personaggio ha il giusto spazio. Ad emergere sono allora Michael e suo figlio, ancora e sempre divisi dalla rispettiva immaturità.