Armageddon Time, la recensione | Cannes 75
L'infanzia di James Gray è un ricordo soffuso che non riesce mai ad incidere, che pensa a I 400 colpi ma non ne ha mai la radicalità di sguardo
I primi anni ‘80 di James Gray sono tutti virati sul filtro del ricordo, sul marroncino e sulle luci tenue (che bella la scelta di trasformare un parco in un quadro solo con la luce per il momento di maggiore sentimentalismo di un bambino con aspirazioni da pittore). Del resto sono i suoi ricordi, quelli di un bambino di 12 anni cresciuto in una famiglia ebraica di origini ucraine a New York. Nonni che hanno visto le tragedie europee del ‘900 e le cui idee ne portano i segni, genitori ossessionati dalla scalata sociale. E forse tra i suoi ricordi c’è anche il cinema, assente nella trama ma presente nella sostanza, perché non ci vuole molto per riconoscere in questo Paul Graff un Antoine Doinel di I 400 colpi che non è cresciuto nella Francia post-seconda guerra mondiale (con l’invasione dei film americani) ma semmai nell’America degli anni ‘70, quella dell'Armageddon Time paventato da Reagan in campagna elettorale, con l’ossessione per la cultura pop e il disegno.
Non sono però solo i due bambini in difficoltà, tutto intorno a loro è una difficoltà continua anche per i genitori (maneschi ma che a differenza di quelli di Antoine gli vogliono bene), anche loro si fanno strada con i gomiti in una società che temono non li voglia.
Operazione molto più di testa che di cuore, che tuttavia cerca di diventare tale con un po’ di momenti smielati (la malattia, la morte), Armageddon Time è perfetto per chi vuole trovare in un film una conferma delle proprie idee, e sviscerare il grande messaggio politico. Molto meno per chi si aspettava un viaggio nella testa di un bambino che potesse mostrare il mondo con uno sguardo diverso dal solito. Perché non ci sono dubbi che in questa storia del piccolo Paul Graff, in realtà lo sguardo è quello dell’adulto James Gray.