April, la recensione: in Georgia nessuno può sentirti urlare
La storia di una dottoressa che aiuta donne e ragazze a non avere figli diventa un supplizio di silenzi in un film che non sa comunicare quel che vuole
C’è un mostro che si aggira in questo film, un corpo di donna avvizzito, deforme, con un volto privo di tratti somatici. È un mostro che arranca e si muove a stento, una creatura di fantasia che entra nel film in piccole e brevi scene separate dal resto. È l’interiorità della protagonista? È il mostro che si porta dentro? È quello che teme per sé? Non solo non si sa (che figuriamoci, va benissimo), ma non interessa nemmeno al film buttare giù delle piste interpretative per gli spettatori. È la prima di molte irritanti scelte che fa April, storia di una donna, una dottoressa, che aiuta altre donne ad abortire di nascosto, che prescrive pillole anticoncezionali alle ragazze di nascosto e fa di tutto per aiutare chi non vuole avere figli.
April è il tipo di film in cui il vuoto domina. Vuoto dei silenzi. Vuoto degli spazi e dei paesaggi muti che ci viene proposto di guardare per interminabili secondi, senza avere niente in cambio. Non un momento di vera commozione, non un’idea che ne aumenti il senso e nemmeno delle belle inquadrature piene di mistero in cui perdersi, come nei film di Lav Diaz, in cui la fissità non è immobilismo o interruzione di narrazione, ma una specie di strana dimensione alternativa, nella quale lo sguardo indaga anche per decine di minuti la stessa immagine traendone sempre qualcosa di nuovo.