Appunti di un venditore di donne, la recensione

L'archetipo di un nuovo Noir-complottista. Appunti di un venditore di donne conosce la tradizione e sa benissimo come si fa un noir vero

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
È lo stato italiano! Quello che vogliono se lo prendono”. Nasce così il noir-complottista italiano, con questa battuta che suggella un atteggiamento marcatissimo di profonda fede negli intrighi reali dello stato, del crimine e, nel caso specifico, delle brigate rosse. Nelle tesi cospirazioniste di Appunti di un venditore di donne di Fabio Resinaro non si percepisce mai ironia ma serissima volontà di guardare alle verità non dette.

“Quello che non ci hanno mai detto e che hanno fatto alle nostre spalle”, ovvero la materia di cui è fatto il cinema cospirazionista invade il territorio del noir e di colpo sembra che questi due tipi di racconti siano fatti per stare insieme. E bisogna dirlo subito, forte e chiaro: Appunti di un venditore di donne è un gran bel noir.

Non avrà un gran bel titolo. Ma è un bel film.

Certo non tutto gira per il verso giusto, né tutto è propriamente impeccabile (anzi, le cadute di stile e le sbafature sono una costante fino alla fine) ma è talmente centrata l’ambientazione prevalentemente notturna, fatta di neon fasulli e artificiosi, talmente astratta l’atmosfera di una Milano anni ‘70 da fumetto hard boiled, e infine talmente è concreta la disperazione di tutti i coinvolti in questa fotografia plumbea e mortifera, che diventa subito sciocco concentrarsi sui dettagli. Appunti di un venditore di donne sa cosa è un noir, sa cosa conti e lo sa fare.

Il modello viene dal romanzo di Giorgio Faletti ma in realtà è ben più antico, è l’archetipo che in Italia ha la sua forma più compiuta in Milano calibro 9 (un disgraziato ma furbo con il cuore che batte per la donna sbagliata ha un piano rischiosissimo che lo porta ad essere braccato da polizia e crimine contemporaneamente) e a cui Faletti dà una forma coerente e dei personaggi comprimari giusti per sostenerne il fine ultimo, cioè la sensazione di un mondo di abbandonati in cui è difficilissimo amare e facile morire.

Fabio Resinaro poi decide di dirigere tutto con il piglio anni ‘70, cioè non disdegnando l’espressionismo italiano riuscendo a marginalizzare tutto il terribile “riflessismo” del cinema italiano, cioè la tendenza a trasformare storie di genere in momenti di intimismo struggente, concentrandosi sull’azione.

L’unico problema del film, nonostante l’impeccabile scelta di facce (perfetto Paolo Rossi, giusta la scelta di Miriam Dalmazio e finalmente qualcuno che usi a dovere Michele Placido), è il comparto degli attori. Più che un’arma è un continuo problema. Se si esclude il monumentale Antonio Gerardi (il miglior caratterista italiano in attività), il resto del cast arranca e sottrae qualcosa al tutto invece di donarglielo. Appunti di un venditore di donne riesce tuttavia a non cadere mai, rimanendo eroicamente in piedi fino alla fine, riparando sempre con un dettaglio della trama o con ambienti luci e costumi troppo corretti per essere veri.

Questo primo noir complottista è un film dentro il quale crescere fino a non vederne più i difetti e rimanere solo davanti alla brutalità di prostitute e senatori, Brigate rosse e Sisde, ipotesi di fantapolitica e scoperte di cospirazioni che, se ambientate nell’Italia degli anni ‘70 e messe in bocca a politici con il loden, hanno la stessa credibilità delle presenze demoniache nelle campagne del sud Italia. Se non proprio vero almeno plausibile.

Continua a leggere su BadTaste