Apollo 10 e mezzo, la recensione

Unendo la Storia all’immaginazione, Linklater riflette con Apollo 10 e mezzo non tanto sul senso in sé di un’epoca ma sulla potenza che hanno la nostra percezione e il nostro sguardo nel determinare ciò che riteniamo reale, vero ed importante.

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La recensione di Apollo 10 e mezzo, su Netflix dal 1 aprile

È tutto un gioco di memorie infantili rievocate nei minimi dettagli, in un’estate storica del 1969 nella periferia di Houston, e al contempo di ricordi immaginati e impossibili - una missione della NASA affidata al decenne protagonista, Stan - il nuovo e bellissimo film di Richard Linklater Apollo 10 e mezzo. Lontano dall’iperrealismo di Boyhood, Linklater riconferma però, stavolta passando per l’animazione, una poetica della meraviglia, dedita a trovare con l’aiuto del cinema il senso elastico del tempo e la bellezza di ciò che si fa ricordo.

Seguendo questo magnifico doppio sguardo (proprio quello dei bambini, che esagerano con la fantasia partendo da ciò che osservano intorno a loro), Linklater usa la tecnica del rotoscopio (che ricalca immagini reali) per cogliere con dolcezza lo sguardo di un bambino verso un’epoca, raccontando così da una prospettiva tutta particolare quei fine Sessanta negli Stati Uniti come un’epoca irrazionalmente ottimista, che faceva della corsa allo spazio il pretesto perfetto per non guardare in faccia il Vietnam e le lotte interne per i diritti civili.

Apollo 10 e mezzo è un film dal respiro piccolissimo, dall’atmosfera famigliare e dall’andamento sognante, ma è proprio nella dimensione della vivida rievocazione che trova il suo senso più intimo. Partendo dalla voce narrante di uno Stan adulto - alter ego finzionale e in qualche misura autobiografico del regista - Linklater procede a ritroso per lunga parte del film (quasi metà), destreggiandosi con estrema libertà in una galleria di piccoli eventi e innumerevoli dettagli: i giochi con i cinque fratelli e i vicini di casa, le abitudini dei genitori, i rituali della domenica sera,  i programmi televisivi, i film, i dischi, il cibo… macro e micro e ambiti diversi si mescolano in continuazione con una fluidità disarmante, coinvolgendoci nel racconto di un’infanzia stupenda - proprio perché ottimista - di cui Linklater ci fa sentire una profonda nostalgia.

Ciò che però domina questo immaginario e che rende la storia veramente interessante e particolare è la continua suggestione della corsa allo spazio che irrorava la cultura dell’epoca e, nello specifico, quell’infanzia che ci viene raccontata. Houston è infatti la casa della NASA e Stan e tutti gli abitanti del luogo percepivano in quegli anni un legame speciale e profondo con la missione spaziale, come se realmente ne avessero preso parte (in effetti suo padre lavorava alla NASA ma come un semplice impiegato, motivo di vergogna per Stan che lo voleva astronauta). Ecco che allora Stan, in una seconda parte di racconto che si fonde con il reale, ci convince di essere stato il protagonista della missione “dieci e mezzo”, coinvolto in un’operazione top-secret (il sogno di ogni bambino) che lo avrebbe reso il primo ragazzino a mettere piede sulla Luna.

Unendo in questo modo la Storia - lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11 - all’immaginazione, Linklater riflette con Apollo 10 e mezzo non tanto sul senso in sé di un’epoca ma sulla potenza che hanno la nostra percezione e il nostro sguardo nel determinare ciò che riteniamo reale, vero ed importante. Lo fa con una semplicità disarmante, concludendo questa favoletta con un’affermazione forse banale ma perfettamente coerente con tutto ciò che abbiamo visto: “così funziona la memoria, ti crea ricordi anche quando non ne sei testimone diretto”.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Apollo 10 e mezzo? Scrivetelo nei commenti!

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