Antlers, la recensione

La storia di un mostro che prende forma in casa e di un bambino che vive con questo segreto è una metafora anche troppo sfacciata

Critico e giornalista cinematografico


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Antlers, la recensione

Ci sono registi che si misurano in tutti i generi perché possiedono una creatività incontenibile e perché la lingua per immagini attraverso la quale si esprimono è molto più forte delle singole convenzioni dei generi, così rimangono loro stessi in una commedia, in un horror e in un western. Dall’altra parte ci sono registi in costante ricerca di un’identità, per i quali misurarsi con più generi è una maniera di crearsi un’immagine da mestieranti che gli consenta di non precludersi nessuna possibilità di lavorare o magari trovare il tipo di film in cui riuscire meglio. Scott Cooper sembra appartenere a questa seconda categoria, perché ogni film che affronta il suo tocco si perde e sembra inseguire lo stile di moda più che una propria visione. È stato così per Crazy Heart, per Il fuoco della vendetta e per il terribile Black Mass, ed è così per il suo primo horror d’autore, Antlers.

L’idea è la più scontata di questi anni, cioè trasformare una storia che 40 anni fa sarebbe stato un film per ragazzi, 30 anni fa sarebbe diventata un B movie, 20 anni fa sarebbe diventata un film ironico e 10 anni fa un film da festival, in un’operazione crossover: sufficientemente dura, splatter e visivamente gore per occupare con fierezza la casella dell’horror, ma anche sufficientemente rarefatta e raffinata fotograficamente per essere cinema indipendente d’autore. Il genere di film che la A24 ha portato alla ribalta con successo e che adesso anche la 20th Century Fox (diventata Disney) ha realizzato. Solo che Antlers pur avendo la mitologia giusta e la personalità giusta dietro (c’è Guillermo Del Toro a produrre e tirare le fila), non riesce mai a tenere il piede in due staffe.

La storia di una maestra elementare che indaga con il fratello sceriffo sulla situazione che vive a casa uno dei suoi bambini, è la più facile e diretta delle metafore per i maltrattamenti e le difficoltà domestiche, che queste poi prendano la forma di un mostro mitologico, un po’ Dog Soldiers, un po’ Dio Bestia di La principessa Mononoke, è un dettaglio che non mette molto, specie quando anche le scene più cruente non sono mostrate.

Le luci sono quelle giuste e i colori sono quelli giusti, così tanto che viene il sospetto che quella fosse la preoccupazione principale, non quella di potersi permettere una fotografia raffinata ma di centrare l’estetica “giusta”.

Perché poi al netto di tutto, in Antlers non c’è davvero nulla, soprattutto non c’è quel dettaglio che ha sempre salvato il cinema di Guillermo Del Toro, anche quando meno riuscito, cioè un vero amore per il mondo dei mostri che non lo piega verso la dolcezza ma sa rispettarlo e trovare nelle sue caratteristiche originali la dolcezza e una strana forma di vicinanza, di attrazione che si nutre di repulsione. Del Toro ha sempre mostrato le sue creature per bene, perché le ama, ne ama l'artigianato e ne apprezza la raffinata mostruosità. Qui il mostro è costantemente nascosto come fosse Alien.

Più si guarda Antlers più viene da chiedersi allora che senso abbia fare un film così. Che poi non è una domanda diversa da quella scatenata dalla visione di altri film di Scott Cooper. Magari è questo il suo stile che attraversa vari generi...

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