Antipop, la recensione

Attraverso i video e le storie intorno alla gavetta di Cosmo, Antipop fa un racconto estremamente intimo di musica, provincia e aspirazioni

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Antipop, il documentario di Jacopo Farina su Cosmo, disponibile dal 1° marzo su Mubi

Tutto quello che gira intorno alla musica senza essere la musica fa parte della costruzione dell’identità dell’artista che la suona o canta. La videomusica in particolare, dai videoclip (molto forti ieri) ai documentari musicali (molto forti oggi), è un pezzo cruciale della costruzione di questa identità. Antipop è un documentario su Cosmo diretto da Jacopo Farina, già regista dei suoi video musicali, e questo fa: contribuisce alla costruzione dell’identità di Cosmo. O per dirla in un’altra maniera aggiunge un altro livello di lettura alla musica mentre ne favorisce il commercio identificando un target preciso. Tuttavia la direzione che viene scelta, e quindi il tipo di identità che viene qui raccontata, è spiazzante per onestà intellettuale, concretezza biografica e senso dell’empatia. Questo è l’esatto opposto di un documentario a scopo di marketing, anche se il suo effetto rimane quello.

C’è uno tono in Antipop così confidenziale, così ravvicinato e così nudo, da superare già nei primi minuti la barriera dell’autoagiografia (in fondo è pur sempre un documentario con Cosmo su Cosmo) e creare un’atmosfera intima molto più adatta alle case che alle sale cinematografiche. Merito della grande quantità di materiale video amatoriale proveniente dalla vita di Cosmo, dalla fase in cui era giovane adulto fino a oggi, ma merito anche della maniera in cui Jacopo Farina lo assembla e usa la voce fuori campo dello stesso Cosmo. Tutto insieme crea uno storytelling dalla scorrevolezza realmente stupefacente, più vicino alla confessione che al documentario con teste parlanti (che pure non mancano), più simile all’intervista confidenziale che alla grande celebrazione (che pure tra le righe passa).

Si scivola in un attimo dentro agli anni a Ivrea, nella famiglia di Cosmo così ben raccontata con pochi tratti, in una provincia così tipica da essere molto facile da immaginare, così realistica da essere vicina per quanto non desiderabile. Ci sono gli amici, i primi gruppi, le morti, le delusioni, e un campionario di fatti veri che messi insieme dal documentario somigliano al cinema giovanile degli anni ‘70 e ‘80, quello dei grandi domani che non vengono per nessuno e non risparmiano vere amarezze. A differenza di qualsiasi altro documentario qui non c’è nessun senso di predestinazione, anzi. C’è la ferma convinzione che la provincia sia una gabbia.

In questa maniera, organizzando così la narrazione, coinvolgendo così tanto e avvicinando con questa dolcezza lo spettatore al protagonista quando il successo, che chiunque guardi sa che deve arrivare, alla fine arriva, stranamente non è scontato. È reale. E si materializza la stesa impressione che il cinema di finzione sa creare, l’illusione di essersi così immedesimati nel protagonista della storia da riuscire a sentire i suoi sentimenti insieme a lui. La soddisfazione per avercela fatta senza l’esplosione dell’entusiasmo giovanile ma con la commozione mesta di chi pensava che quel momento non sarebbe più arrivato. E tra le molte possibili identità da costruire intorno a un artista, questa è una delle meno ascoltate e più convincenti.

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