Antarctica Calling, la recensione | Locarno 76

Centrato su un viaggio verso il Polo Sud ma con così poco da dire da finire a parlare del suo documentarista, Antarctica Calling è uno strazio

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Antarctica Calling, il documentario di Luc Jacquet presentato fuori concorso al festival di Locarno

Luc Jacquet fin dal titolo dichiara di non resistere al richiamo dell’antartico ma in realtà ciò a cui non resiste è il richiamo dei pinguini, il suo grande successo (La marcia dei pinguini). Resiste 60 minuti e poi, dopo un’ora di documentario in viaggio verso il polo sud, i pinguini inesorabili arrivano. Come nel bis di un concerto ripete il suo cavallo di battaglia, per la gioia di tutti. È al tempo stesso il culmine e il punto più basso di tutto questo documentario vanitoso, compiaciuto ed eccezionalmente pomposo, in cui il bianco e nero ben si accoppia alla piccola poesia delle similitudini scaricate sul pubblico come da un camion, e senza remora alcuna, dallo stesso Jacquet attraverso la sua profonda voce fuori campo.

Jacquet torna tra i ghiacci, rispettoso della natura e portando con sé il medesimo vocabolario saggio di un capo indiano americano con una vita di contemplazione delle praterie alle spalle, e ci propone ora questo viaggio in cui lui è importante tanto quanto, se non di più, degli ambienti filmati. Le sue impressioni così raffinate e letterarie, la sua vita da documentarista (ma anche di più, da artista!), l’impervio viaggio e la meraviglia dell’estasi del ghiaccio, tremano di fronte al rigore delle sue parole e al fragore con il quale i suoi anacoluti sfondano piccoli iceberg insieme alla nave rompighiaccio. Raramente un documentario ha parlato così poco del suo soggetto e così tanto del suo autore, senza che il secondo avesse granché da dire.

Il rigore commerciale di La marcia dei pinguini è sostituito qui da un bianco e nero deciso con velleità di lirismo visivo che, nelle intenzioni del documentario, è una buona cifra visiva per raccontare l’animo duro di chi quel paesaggio lo sta attraversando e che non fa che mietere impressioni su impressioni, quando non racconta le difficoltà abissali che deve superare per giungere alla meta della sua ossessione. Un po’ artista, un po’ pirata; un po’ Jack London e un po’ The Clash con quel titolo internazionale Antarctica Calling (Ma chiama chi? Chiama lui, tanto per cambiare! Chi altro mai può essere “chiamato” dall’Antartico? Mica è una meta turistica!).

Qualsiasi possibile idea di sguardo sulla natura dotato della potenza poetica herzoghiana non va nemmeno accarezzata. Non bisogna nemmeno fare il tentativo. Qui non c’è nessuna riflessione reale riguardo ciò che viene guardato, nessuna ambizione di uno sguardo rivelatore, solo le impressioni di un viaggiatore che pensa ai problemi del mondo facendosi scendere sul viso una singola rigorosa lagrima al pensiero degli errori dell’uomo (errori che condanna con lo sconforto di un incompreso intellettuale romantico in esilio di metà ‘800). Nondimeno alla fine di questo strazio egoriferito i pinguini finalmente marceranno, per la gioia del pubblico in cerca di sequel. E ovviamente Jacquet marcia con loro, confuso tra di essi grazie agli effetti ottici di alcune inquadrature, allontanandosi nella tempesta di ghiaccio come un cowboy verso il tramonto, mentre fortunatamente per loro i pinguini non possono sentirlo parlare di “Linee magnetiche”, “abbagliante bianchezza” e del declino della razza umana. Eroico. A modo suo.

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