Anselm, la recensione
Le opere di Anselm Kiefer diventa per Wenders una maniera per raccontare il temperamento artistico e continuare a sperimentare il 3D
La recensione di Anselm, il film in tre dimensioni di Wim Wenders in uscita in sala il 30 aprile
La cosa importante è che Anselm non è mai un documentario di divulgazione, anche quando ne incorpora alcuni tratti tipici o pezzi di racconto, quando ne imita il biografismo e una maniera di procedere di opera in opera, spiegandone le origini e dichiarandone gli intenti. Eppure è anche sempre molto evidente come per Wenders conti molto di più il cinema e quello che l’indagine dei dipinti giganteschi di Kiefer, ripresi in 3D, possa dire sul cinema come macchina della documentazione e della creazione di senso. È insomma più una forma di critica d’arte che di narrazione, una fatta con un’altra forma di produzione artistica, e una in cui nel sottofondo sembra sempre di poter sentire: “Che cose incredibili che si possono fare con il cinema, no? Non ci sono confini, non ci sono limiti!”. Più interessante che appassionante.
Anselm non è “come stare lì” ma sa costruire intorno a questa idea di compresenza (che grazie al 3D è un’illusione e di certo non “vera presenza”) un piacevole insieme di momenti in cui il 3D impressiona di fronte a dipinti giganti. Oltre a questi poi Wenders crea anche scenari che sembrano usciti da Stalker di Tarkovsky e altri che replicano l’idea già presente in Pina 3D di selezionare gli ambienti in cui far accadere le cose. Anselm è insomma un film autonomo che sfrutta le opere dell’artista documentato per fare cinema d’arte, nel senso stretto e letterale del termine. Una categoria flebile che Wenders è uno dei pochi ad animare di film, e questo principalmente grazie al potere che gli viene dal suo essere una star del mondo della cultura.