L'anno che verrà, la recensione

L'anno che verrà si avvicina decisamente di più al linguaggio televisivo – o meglio, da on demand – e seriale, pur conservando una sua coerenza unitaria

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Nel sobborgo parigino di Saint-Denis c’è una scuola superiore che riunisce in una classe tutti gli adolescenti più problematici della zona, una tra le tante periferie della capitale afflitte dal disagio sociale. L’anno che verrà, dramma/commedia del giovane duo composto da Mehdi Idir e Grand Corps Malade (entrambi proprio di Saint-Denis), come indica già dal titolo osserva però questa realtà rivolgendosi al futuro, aprendo un possibile varco di speranza per i protagonisti dell’agitato anno scolastico.

Il futuro della scuola ha un nome preciso: quello di Samia (Zita Hanrot), la nuova vice-preside, giovane volenterosa appena trasferitasi dalla verde regione dell’Ardèche al grigio della vita suburbana. Samia si integra subito nel nuovo contesto, e grazie alla sua disciplina, equilibrata da un accorto spirito di osservazione e dall'aiuto del suo team, riesce a tenere sotto controllo i piccoli drammi quotidiani. Tuttavia nella classe dei “casi speciali” c’è un ragazzo che più degli altri la preoccupa: Yanis (Liam Pierron), giovane attaccabrighe in cui intravede però un’intelligenza e una sensibilità particolari. Tra risse in cortile, infortuni nell’ora di ginnastica, battute scorrette e continui ritardi, il piccolo ufficio di Samia diventa il luogo di concentrazione di ogni problema: proprio lì, giorno dopo giorno imparerà a conoscere meglio i drammi di Yanis, scoprendo di avere in comune con il ragazzo più di quanto pensasse.

Muovendosi quasi episodicamente attraverso una narrazione che ricorda i tempi della sit-com televisiva, focalizzata in questo caso nello spazio dell’ufficio, dove si alternano gag e momenti drammatici, L’anno che verrà riesce a equilibrare il ritratto dei professori con quello degli studenti, tematizzando sempre meglio come le due parti non siano così avversarie come sembrano, ma inaspettatamente simili, ugualmente emotive e umane: soprattutto, necessarie l’una all’altra. E come gli adolescenti possono essere capaci di sentimenti duri, di sopportare situazioni pesanti e oppressive (tra parenti in carcere e giri di droga), all'opposto gli adulti si rivelano talvolta nei loro risvolti più infantili e capricciosi: come il professore di storia, che con costante vittimismo punta il dito contro l'esuberanza dei suoi alunni, che tuttavia dovrebbe conoscere nelle loro "particolarità". Senza edulcorare la realtà del sistema scolastico attraverso buonismi o facili scivoloni moralisti, i due registi raccontano con onestà il loro contesto di provenienza, e si prendono la responsabilità di affermare che una redenzione è possibile per tutti, ma che è responsabilità soltanto del singolo trovare dentro di sé la forza per cambiare.

Dell'illustre antecedente tematico La classe – entre les mures di Laurent Cantet (Palma d’oro a Cannes nel 2008), ritratto di una classe elementare altrettanto disagiata, L’anno che verrà conserva non il linguaggio dell’immediatezza visiva, situazionale - ovvero quello da macchina a mano che segue i personaggi, altezza bambino - ma l’atmosfera, l’assoluta naturalezza della recitazione, che nel suo divertente realismo sembra quasi tendere dalle parti dell'improvvisazione. Rimodulato quindi in una dimensione visivamente ripulita e ordinata, sempre a favore della leggibilità degli spazi, illuminati alla perfezione, e delle situazioni raccontate, spesso separate e auto conclusive, L'anno che verrà si avvicina decisamente di più al linguaggio televisivo – o meglio, da on demand – e seriale, pur conservando una sua coerenza unitaria, da visione unica.

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