L'anno che verrà, la recensione
L'anno che verrà si avvicina decisamente di più al linguaggio televisivo – o meglio, da on demand – e seriale, pur conservando una sua coerenza unitaria
Il futuro della scuola ha un nome preciso: quello di Samia (Zita Hanrot), la nuova vice-preside, giovane volenterosa appena trasferitasi dalla verde regione dell’Ardèche al grigio della vita suburbana. Samia si integra subito nel nuovo contesto, e grazie alla sua disciplina, equilibrata da un accorto spirito di osservazione e dall'aiuto del suo team, riesce a tenere sotto controllo i piccoli drammi quotidiani. Tuttavia nella classe dei “casi speciali” c’è un ragazzo che più degli altri la preoccupa: Yanis (Liam Pierron), giovane attaccabrighe in cui intravede però un’intelligenza e una sensibilità particolari. Tra risse in cortile, infortuni nell’ora di ginnastica, battute scorrette e continui ritardi, il piccolo ufficio di Samia diventa il luogo di concentrazione di ogni problema: proprio lì, giorno dopo giorno imparerà a conoscere meglio i drammi di Yanis, scoprendo di avere in comune con il ragazzo più di quanto pensasse.
Dell'illustre antecedente tematico La classe – entre les mures di Laurent Cantet (Palma d’oro a Cannes nel 2008), ritratto di una classe elementare altrettanto disagiata, L’anno che verrà conserva non il linguaggio dell’immediatezza visiva, situazionale - ovvero quello da macchina a mano che segue i personaggi, altezza bambino - ma l’atmosfera, l’assoluta naturalezza della recitazione, che nel suo divertente realismo sembra quasi tendere dalle parti dell'improvvisazione. Rimodulato quindi in una dimensione visivamente ripulita e ordinata, sempre a favore della leggibilità degli spazi, illuminati alla perfezione, e delle situazioni raccontate, spesso separate e auto conclusive, L'anno che verrà si avvicina decisamente di più al linguaggio televisivo – o meglio, da on demand – e seriale, pur conservando una sua coerenza unitaria, da visione unica.