Annie Parker, la recensione

La storia vera di Annie Parker meritava ben altro trattamento di questo melodrammetto ansioso di commuovere ed eccitato dalla tragedia

Critico e giornalista cinematografico


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L'esordio alla regia e sceneggiatura del direttore della fotografia Steven Bernstein arriva nella forma della "storia vera", una delle trappole più insidiose del cinema. Adattare la vita di Annie Parker, donna grazie alle cui peripezie si stava quasi per scoprire una cura per il cancro e che con la sua storia personale è diventata un simbolo di costanza e forza di volontà, non sarebbe stato semplice per nessuno e l'impressione è che i fratelli Bernstein abbiano scritto una sceneggiatura tra le più ruffiane e smielate possibili, cioè che siano caduti in tutte le trappole nelle quali si può cadere trattando una materia difficile come la lotta per la vita di una persona vera.

Ci sono diversi piani temporali lungo i quali muoversi e ci sono diverse svolte inattese nella trama, date dal continuo ripresentarsi della malattia, momenti in cui di volta in volta il carico emotivo cresce perchè a tragedia si somma tragedia e i Bernstein non fanno nulla per evitare il sovraccarico emotivo, anzi sembrano voler accumulare scene madri su scene madri. L'effetto è ovviamente quello dei casi peggiori, cioè il rifiuto da parte dello spettatore di un'immedesimazione così forzata e di un piano di lettura così superficiale (Annie Parker è praticamente un angelo).

La mancanza dell'esperienza necessaria a maneggiare questo tipo di materiale si sente anche nel finale. Annie Parker è ancora viva, la sua storia dunque non ha una vera chiusa, come tutte le vite in corso non suggella nessun arco narrativo. In questo senso il film annaspa, cerca con l'espediente dell'ultima scena mostrata in testa al film di dare forza a momenti che forza non hanno, lasciando sospesa (ma non nel senso migliore) una storia che ha dato più fastidio che altro.

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