Anche io, la recensione

Raccontando la nascita del movimento #Metoo attraverso il giornalismo d'inchiesta, Anche io celebra il potere della parola

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La nostra recensione di Anche io, dal 19 gennaio al cinema

Anche io, dice il titolo italiano, richiamando ancora più direttamente il tema del film, la nascita del movimento #Metoo. She said, quello originale, che invece evoca il suo cuore, il potere salvifico della parola e la difficoltà che comporta il far sentire la propria voce. Protagoniste della storia, basata su fatti realmente accaduti, sono le due giornaliste del New York Times Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan). Nel 2016 iniziano a indagare sugli abusi sessuali che Harvey Weinstein, presidente della Miramax, imponeva ad attrici e collaboratrici. Raccolgono varie testimonianze e così scoprono gli accordi che l'uomo le imponeva per ridurle al silenzio e poter continuare impunito con i propri comportamenti.

Anche io fa combaciare perfettamente il filone dei film sul giornalismo d'inchiesta (Il caso Spotlight, The Post) con la storia che racconta. La parola scritta della stampa che rende pubblico un fatto e la voce messa a tacere delle vittime, la richiesta delle due giornaliste di raccontare contro la loro reticenza a farlo. Un processo rispecchiato anche dalla struttura stessa dell'opera, in cui si susseguono le telefonate e gli incontri di persona, con le testimonianze come mezzo per raccontare quello che le immagini non mostrano. Non ci sono infatti ricostruzioni delle violenze, che vengono lasciate nel fuoricampo, evocate anche dagli audio e dalle inquadrature degli ambienti vuoti dove rimangono i segni di cosa è accaduto. Al film basta un'ellissi per far emergere la propria visione dell'industria e della società stessa. Evita dunque qualsiasi sensazionalismo, qualsiasi compiacimento, riuscendo in questo modo ad essere ancora più d'impatto. Come sono le stesse protagoniste a empatizzare a poco a poco con le vittime ascoltando quello che dicono, così è richiesto di fare allo spettatore.

Quello a cui porteranno le indagini è noto, così come il suo esito, eppure il film di Maria Schrader convince anche per come evita di cadere nel pamphlet, nella conclusione edificante. Nelle loro indagini, Megan e Jodi non possono che andare avanti contando solo su loro stesse, scoprendo cosa comporti interloquire con persone ferite per sempre, il potenziale lato oscuro del loro lavoro, se portato all'estremo.

La scena in cui raccolgono una testimonianza inizia con un campo lungo che ci mostra gli ambienti deserti, come un bar, in cui si trovano. Si passa poi ad un campo/controcampo in cui rimarcare il progressivo avvicinamento tra il reporter e l'intervistato, che poi viene rotto poco dopo, quando quest'ultimo se ne va lasciando l'altro da solo al tavolo e l'inquadratura torna in campo lungo. L'obiettivo da cui sono trasportate le due protagoniste si scontra con la dimensione umana delle vittime. Così anche quando le due parlano in ufficio, l'inquadratura marca la distanza dal resto dei colleghi, come loro siano poco considerate fino a quando a tutti non è chiaro il valore dell'inchiesta. Se questa porta dunque a una vittoria (la condanna di Weinstein), il focus di Anche io è su come la violenza subita non possa essere cancellata e il marcio che rimane nella società. Non a caso la storia inizia nel 2016 con Megan che indaga su accuse simili rivolte allora candidato alla Presidenza Donald Trump, senza poi riuscire a impedirgli di arrivare alla Casa Bianca.

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