L'amore secondo Dalva, la recensione
Nicot dà prova di un’intelligenza narrativa e cinematografica per niente comuni - non per la messa in scena o per il coraggio di parlare di un taboo, ma per la capacità di cambiare di segno, conservandone la dolcezza, il linguaggio di un film d’amore.
La recensione di L’amore secondo Dalva, al cinema dall’11 maggio
Di fatto il film è costruito come un coming of age “al contrario”: una ragazzina, Dalva (Zelda Samson), compie un percorso di decrescita da un'età adulta arrivata presto e con una violenza inimmaginabile (è convinta di essere una donna, di amare il padre e che il sesso e l’amore siano la stessa cosa) a quella dei suoi effettivi dodici anni, con tutte le tenerezze e le ingenuità del caso. Presa in carico dai servizi sociali in attesa del processo contro il padre, Dalva dovrà non solo affrontare il dolore di una perdita - il padre/amante - ma poi accettare che tutto quello che ha vissuto era una menzogna manipolatoria, e infine accettarsi, guardandosi allo specchio, nella sua"nuova" identità di ragazzina.
Nicot dà prova di un’intelligenza narrativa e cinematografica per niente comuni - non per la messa in scena (lo stile visivo si vota alla semplicità, zero fronzoli), o per il coraggio in sé di parlare di un taboo, ma per la capacità di cambiare di segno, conservandone la dolcezza, il linguaggio di un film d’amore. Dalva ama e vuole essere amata disperatamente, tutti le dicono cosa può e non può fare, come vestirsi, chi può amare. Le motivazioni sono moralmente chiare, le diremmo oggettive. Ma proprio qui Nicot ci forza, tramite l’empatia, a sentimenti “impensabili” (quelli di Dalva), facendoci capire con la mera forza dell’immedesimazione quanto la realtà sia molto più complessa di quello che sembra.
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