American Vandal (seconda stagione): la recensione

Le nostre impressioni sulla seconda stagione di American Vandal

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Difficile trovare oggi una serie tv in grado di funzionare su così tanti livelli diversi come American Vandal. Dietro la maschera tutto sommato rassicurante e grottesca della parodia dei crime documentary, anche nella seconda stagione la serie Netflix cementifica uno sguardo impietoso sulle dinamiche bestiali tra adolescenti. Ma non solo. Dietro un'indagine che parte da un caso di cronaca esilarante e ridicolo per diventare fin da subito appassionante, si celano riflessioni di ben altro spessore. Nello specifico, in questa nuova stagione si parla di bullismo, di pericolose dinamiche social, di privilegi e di solitudine. Lo sguardo lucidissimo della serie fotografa tutto ciò, rimescolando i temi in un vero dramma scolastico anche più mirato e riuscito rispetto alle pretese di Thirteen Reasons Why.

Dopo tutta questa premessa, ascoltare la trama della stagione potrebbe fare un effetto strano. Il falso documentario parte da una serie di atti vandalici accaduti in un prestigioso istituto privato. L'elemento comune è la cacca. Nel primo di questi, ad esempio, un lassativo viene versato in una bevanda della mensa, provocando disgustosi e incontrollati effetti su decine di studenti. I casi si moltiplicano nei giorni seguenti, rivendicati su Instagram dal temibile Turd Burglar. Uno studente confessa, ma è davvero colpevole? Peter e Sam, i due giovani documentaristi della prima stagione, arrivano ancora una volta sulla scena del crimine per cercare di scoprire la verità.

American Vandal è indubbiamente, per prima cosa, una parodia. Lo stile ricalca quello dei crime documentary reali presenti anche sulla stessa piattaforma. Su tutti, tanto per citare il più discusso, Making a Murderer. E sono molti i punti in comune con il documentario di Moira Demos e Laura Ricciardi, che tornerà presto con una seconda stagione su Netflix. In entrambe le sue stagioni American Vandal ritaglia per i due protagonisti il ruolo di difensori, per caso e non per scelta, di una persona identificata come colpevole, ma che secondo la tesi del documentario non lo è. In questo caso si tratta del giovane Kevin, reo confesso, ma forse costretto ad assumersi colpe non proprie. Allora dietro l'indagine emerge sempre un quadro più ampio: come nella prima stagione, si tratta di portare a galla discriminazioni pregresse, forse la necessità di proteggere certi ambienti, o la pura e semplice superficialità degli accusatori.

Ma è proprio qui che American Vandal compie il primo degli scarti rispetto a quel che ci potremmo aspettare. Il documentario tradizionale funziona secondo molti livelli di adesione alla verità, ma, per quanto riguarda lo stile preso di mira dalla serie, si tratta di una forma che fa della drammatizzazione eccessiva il proprio linguaggio. Si tratta di narrare una storia, prima di un evento incontaminato, e di farlo con le armi della fiction. In American Vandal (ma potrebbe anche essere The Jinx, Making a Murderer, o il recente Wild Wild Country), si fa un ampio uso del cliffhanger, del colpo di scena, di reenactment a scopo enfatico.

American Vandal è finzione. Lo è su molti livelli. Lo scorso anno si presentava come falso documentario, quest'anno scopriamo che la prima stagione era – nella finzione della serie – una versione rielaborata da Netflix del documentario dei due giovani. Eppure, proprio il suo essere palesemente un prodotto di intrattenimento fasullo, le permette di mettere in ridicolo le stesse armi della fiction che altrove sono utilizzate da veri documentari. Cosa rimane – sembra chiederci la serie – di quelle drammatizzazioni dietro cui emerge un immenso lavoro di montaggio e costruzione a posteriori di un prodotto appetibile? Qual è il limite della verità nei prodotti di questo tipo che seguiamo? E, domanda più inquietante, ci interessa davvero saperlo o vogliamo solo ascoltare una storia avvincente?

Ma questa è solo una porzione, peraltro sommersa, di quel che American Vandal racconta. In primo piano c'è una storia. Una storia palesemente assurda, falsa, ridicola nell'enfasi con cui viene esposta. Eppure incredibilmente appassionante. Otto episodi da mezz'ora circa, ed è difficile, avendone la possibilità, non cedere al binge watching. Non per ridere – anche se talvolta si ride per l'assurdità della storia – ma per sapere chi è il colpevole, come si sono svolti i fatti. Da questo punto di vista allora American Vandal può davvero prendere senza remore dal linguaggio della fiction. Si gioca sugli indizi, le rivelazioni, le false piste, le intuizioni geniali. Il tutto fino ad una conclusione molto soddisfacente, perfettamente integrata con i temi della serie.

Perché American Vandal ha davvero molto in comune, soprattutto in questa seconda stagione, con Tredici. Il Turd Burglar che commenta dall'anonimato del proprio profilo Instagram è un fantasma al pari di Hannah Baker. Motivazioni a parte, ad emergere sarà una critica trasversale alle dinamiche malate che possono manifestarsi nell'ambiente scolastico e in quella che ormai deve essere considerata come la sua sovrastruttura virtuale: i social. Lontano dalla demonizzazione, lontano dalla retorica, qui c'è un discorso ragionato sul bullismo (Atlanta quest'anno ha costruito un ottimo episodio sul tema). Non inteso come stigma sociale dei più forti "a prescindere" che colpisce i più deboli. Bullismo inteso come sistema trasversale, una specie di società all'interno della società, con le proprie regole, che poggia su una vaga omologazione e colpisce entrambi gli estremi: i "loser" e i "popolari" intrappolati nella stessa gabbia.

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