Era lecito aspettarsi qualcosa di più da una coppia come
Max Landis e
Nima Nourizadeh. Il primo è figlio di John e ha al suo attivo la sceneggiatura di
Chronicle (più quella meno sorprendente di
Victor: la Storia Segreta del dr. Frankenstein), il secondo è un regista di origini iraniane che con
Project X è riuscito a girare una delle commedie più complesse, provocatorie, visivamente originali, intelligenti e consapevoli (oltre che esilaranti) sul tema dell’ossessione per il divertimento e del ribellismo represso di questi anni. Il loro incontro ha dato vita ad
America Ultra, action comedy che ruba un po’ da
The Bourne Identity un po’ da
Akira (ed è la seconda volta per
Max Landis dopo
Chronicle)
, un po’ dalla stoner comedy, per raccontare del paradossale riscatto di un fattone contro la CIA.
Quella del film è la poetica degli outsider, dei commessi di un piccolo store di provincia che per andare avanti si stordiscono di canne e disegnano fumetti che non pubblicheranno mai, che si prende una rivincita non tanto contro lo stato ma contro la mitologia di cui si abbevera. Mike, commesso indifeso e pieno di fobie, scopre di colpo di essere in realtà un’arma messa a punto dalla CIA, di avere capacità di adattamento, guerriglia e combattimento da agente segreto, scopre cioè di non essere diverso da Apollo Ape, il personaggio che ha creato per i suoi fumetti, di essere all’altezza della mitologia che sogna. Però questo buono spunto, che per l’appunto prende da Akira l’idea di un progetto segreto del governo teso a potenziare dei ragazzi fino a renderli delle armi (c’è anche il fatto che molti non reggano), non può bastare da sè se poi il resto del film si abbandona proprio a quelle convenzioni che Landis e Nourizadeh avevano dimostrato di saper dribblare così bene in passato.
Anche grazie alla coppia già protagonista dello straordinario
Adventureland, American Ultra riesce ad essere comunque godibile, che non riesce a smettere di essere gentile anche quando ha ormai compreso di avere abilità che gli consentono di uscire vincitore da ogni situazione, ma già da come il film si presenta visivamente, dall’originalità di certi toni di
Nourizadeh, dalla sua propensione a cercare i contrasti tra il buio e i colori accessi (una delle scene migliori si svolge in una stanza illuminate con luci fluo) è evidente che qualcosa di più era lecito chiederlo. Anche la piccola parte di
John Leguizamo, spacciatore da 4 soldi, sembra chiedere in ginocchio un film migliore.