American Symphony, la recensione
La scelta di Heineman è chiara: creare con American Symphony un documentario il più simile possibile a un film di finzione
La recensione di American Symphony, disponibile su Netflix dal 29 novembre
La scelta di Heineman è chiara: creare un documentario il più simile possibile ad un film di finzione. American Symphony è infatti fin dai primi minuti molto studiato nel montaggio e stilisticamente orientato, con la sua totale vicinanza al volto di Batiste in qualsiasi situazione, anche la più privata (mentre è a letto la sera, mentre ha attacchi d'ansia, parla con la psichiatra, è in ospedale con sua moglie) e pieno di quei formalismi tipici della fiction (il montare una serie di immagini mentre Batiste suona, a raccontarci cosa sta addirittura pensando).
Tra alti e bassi vediamo così Batiste durante le sue riflessioni più oscure e paranoiche e poi durante quelle più mediate e plateali, sul palco dei Grammy, passando per diverse situazioni intermedie che ci danno un’idea di come abbia vissuto soprattutto quell’anno. Ciò che davvero manca in American Symphony è, d'altra parte, il Batiste più ideale e filosofo: la trasmissione della sua idea di arte a-canonica, militante contro gli stereotipi di razza, totalmente devota all’idea di individuo talentuoso (che viene ben spiegata nella scena della premiazione), e che vediamo ribaltata su di lui da alcuni media.
Musicista jazz, pop, soul, compositore, pianista, cantante, afroamericano, laureato alla Julliard, figlio di New Orleans. Sono tutte caratteristiche che Batiste rivendica, e su cui il documentario sembra passare velocemente, lasciandole sospese per preferire una narrazione più costruita - che soddisfa in sé, ma che alla fine ci lascia ancora con il desiderio di saperne di più.
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