American Symphony, la recensione

La scelta di Heineman è chiara: creare con American Symphony un documentario il più simile possibile a un film di finzione

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La recensione di American Symphony, disponibile su Netflix dal 29 novembre

Con lo sguardo ben puntato sulla dimensione più intima e privata come punto di partenza per leggere una carriera professionale, Matthew Heineman segue il musicista Premio Oscar Jon Batiste (co-compositore della colonna sonora di Soul) in uno degli anni più importanti della sua vita. American Symphony, il titolo del documentario, è infatti anche il grande evento di quel 2011 per Batiste e il climax narrativo del film: la Sinfonia in quattro movimenti da lui composta e con cui si esibisce all’ambita Carnegie Hall - una sfida oltre i pregiudizi sociali e musicali su cosa possa o non possa fare un artista afroamericano.

La scelta di Heineman è chiara: creare un documentario il più simile possibile ad un film di finzione. American Symphony è infatti fin dai primi minuti molto studiato nel montaggio e stilisticamente orientato, con la sua totale vicinanza al volto di Batiste in qualsiasi situazione, anche la più privata (mentre è a letto la sera, mentre ha attacchi d'ansia, parla con la psichiatra, è in ospedale con sua moglie) e pieno di quei formalismi tipici della fiction (il montare una serie di immagini mentre Batiste suona, a raccontarci cosa sta addirittura pensando).

In questo senso, il rischio è di abituare così tanto lo spettatore ad una visione funzionale che, paradossalmente, si può perdere il senso dell’ultra-realismo che il documentario in primis sta cercando. In bilico tra queste due tensioni, da una parte American Symphony lavora benissimo sulle sfumature emotive del suo protagonista, è esaustivo nel racconto di una biografia senza essere ripetitivo o eccessivamente drammatico. Quello che infatti più di ogni altra cosa segna la quotidianità di Batiste è la malattia della moglie Suleika Jaouad, malata da anni di leucemia e in chemio mentre questo prepara la Sinfonia e viene nominato ad 11 Grammy, oltre a fare da bandleader fisso al Late Show di Stephen Colbert. Insomma una serie di situazioni tanto delicate quanto importanti e che Heineman ci fa percepire come parte di un unico discorso.

Tra alti e bassi vediamo così Batiste durante le sue riflessioni più oscure e paranoiche e poi durante quelle più mediate e plateali, sul palco dei Grammy, passando per diverse situazioni intermedie che ci danno un’idea di come abbia vissuto soprattutto quell’anno. Ciò che davvero manca in American Symphony è, d'altra parte, il Batiste più ideale e filosofo: la trasmissione della sua idea di arte a-canonica, militante contro gli stereotipi di razza, totalmente devota all’idea di individuo talentuoso (che viene ben spiegata nella scena della premiazione), e che vediamo ribaltata su di lui da alcuni media.

Musicista jazz, pop, soul, compositore, pianista, cantante, afroamericano, laureato alla Julliard, figlio di New Orleans. Sono tutte caratteristiche che Batiste rivendica, e su cui il documentario sembra passare velocemente, lasciandole sospese per preferire una narrazione più costruita - che soddisfa in sé, ma che alla fine ci lascia ancora con il desiderio di saperne di più.

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