American Horror Stories: la recensione
American Horror Stories è un bizzarro esperimento per rendere una serie antologica ancora più antologica, al quale mancano però le idee
Che prodotto curioso questo American Horror Stories. È uno spin-off, ovviamente, di American Horror Story, cioè una serie antologica in cui ogni stagione riparte da zero in termini di trama e personaggi, ed è strutturato a sua volta come un’antologia, ma più estrema, ispirata a grandi classici del passato più o meno recente come Masters of Horror o I racconti della cripta, nella quale ogni episodio fa storia a sé, o quasi, perché nonostante tutto la serie non riesce a resistere a quel minimo sindacale di orizzontalità.
Il problema è che tutto questo è molto interessante a livello teorico, un bel giochino intellettuale che crolla rovinosamente su sé stesso nel momento in cui le storie che racconta, molto semplicemente, non sono interessanti e non fanno paura. Soprattutto la seconda, in realtà: ci sono, nelle sette storie che compongono American Horror Stories (sei, in realtà, di cui uno spalmato su due episodi – qui c’è il trailer), tanti spunti interessanti che riprendono e in certi casi approfondiscono idee e stimoli già esplorati nelle dieci stagioni della serie madre. Si parla spesso del rapporto tra sesso, dolore, morte, e di amore nell’accezione più gotica e disperata del termine. C’è molta meta-televisione, con riferimenti diretti a Netflix, alle piattaforme di streaming e alla loro diffusione, e ovviamente a una o più stagioni di American Horror Story.
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C’è anche un pizzico di materiale originale, concentrato in particolare nel quarto episodio, The Naughty List, storia di quattro influencer fastidiosi che vengono puniti per i loro eccessi. C’è una versione virata all’oggi di Rosemary’s Baby, e l’ultimo episodio (che si ricollega ai primi due, incentrati su una casa maledetta e su parecchio sesso sadomaso) è a tema videoludico. Tutte cose bellissime sulla carta, che però vengono messe in scena con una sufficienza e una mancanza di idee talmente evidente che è difficile arrivare alla fine di un episodio a caso senza provare un fortissimo senso di noia e déjà vu. Gli spunti sono quasi tutti già visti (c’è persino l’ennesima variazione sul tema del film maledetto che fa impazzire la gente che lo guarda); le soluzioni visive adottate sono le stesse che hanno affollato il panorama horror degli ultimi anni, e non sono neanche particolarmente appetitose per chi ama l'ultraviolenza (che comunque non manca). Ci sono episodi che non si può definire in altro modo se non scritti male e montati peggio, privi di ritmo, assemblati frettolosamente a partire da materiale chiaramente girato per riempire almeno un’ora e tagliuzzato per rientrare nei quaranta minuti.
Si finisce più che altro per concentrarsi sul cast, e su qualche nome in particolare: Sierra McCormick, già vista in The Vast of Night e probabilmente il personaggio più presente in tutta la serie, visto che compare in tre episodi su sette; Kaia Gerber e Paris Jackson, cioè le figlie rispettivamente di Cindy Crawford e Michael Jackson: una curiosità all’inizio, finché non dimostrano (Jackson in particolare) di essere lì non per via del cognome ma del talento; un sempre affidabile John Carroll Lynch; Danny Trejo vestito da Babbo Natale. Piccole soddisfazioni, scosse elettriche che scuotono per un attimo dal torpore di una serie troppo concentrata sulle cose che vuole dire, e che si dimentica che serve anche saperle dire.