American Gods 3×09 “L’effetto del lago”: la recensione

American Gods 3x09 chiude frettolosamente quasi tutte le parentesi aperte fin qui: ci stiamo avviando alla conclusione della stagione o della serie?

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Spoiler Alert
American Gods 3×09 “L’effetto del lago”: la recensione

Il problema di quando tieni il freno a mano tirato per un’intera stagione è che arriva il momento in cui devi mollarlo per forza, e rischi di sbandare e andare a sbattere contro un muro. Oppure rischi, com’è successo ad American Gods, che l’aumento improvviso di velocità banalizzi tutto quanto: dopo averci abituati ad affrontare tuuuutto con moooolta caaaalma, godendosi i dettagli e girando a vuoto nel nome dello spettacolo visivo, la serie si trova a due episodi dalla fine della stagione e soprattutto senza deviazioni e sottotrame da esplorare; e quindi L’effetto del lago (guarda il trailer) fa il curioso effetto (appunto) di sembrare fin troppo frettolosa pur essendo un episodio mediamente lento di una qualsiasi altra serie TV.

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Lakeside? È arrivato il momento di lasciarcela alle spalle, e di scoprire finalmente il terribile segreto che si nasconde dietro la facciata di normalità provinciale della cittadina del Wisconsin. È un segreto che aggiunge qualcosa alla storia della guerra tra vecchi e nuovi dei e alla parabola personale di Shadow Moon? No, però ormai siamo qui e abbiamo dedicato un paio di mesi della nostra attenzione a questa sottotrama; e quindi bisogna chiuderla per non lasciare nulla in sospeso, e farlo a colpi di magie e MacGuffin. La guerra di Wednesday? Il fu Odino ha ormai chiesto aiuto a chiunque, ricevuto i suoi sì, i suoi no e i suoi forse, ed esaurito le divinità sulla sua lista; in L’effetto del lago torniamo quindi all’inizio di tutto, da Chernobog, per fare un altro passo verso la fine.

Laura? Laura vuole uccidere Wednesday, deve farlo se non vuole far arrabbiare i nuovi dei, ha l’arma giusta per farlo e pure la volontà. È diventata l’elemento più importante di tutta la faccenda, sicuramente più degli stessi nuovi dei e della loro applicazione SHARD, l’unica che ha fiducia in te; e ha trovato un surrogato di Sweeney che le può insegnare a usare la suddetta arma. E quindi anche lei converge, come tutto il resto del mondo di American Gods, verso Odino e la fine della guerra, in un senso e nell’altro; e lo fa più attivamente del resto del cast, che altrimenti passa l’episodio a parlare, proclamare, dire addio, urlare, dire parolacce e fare molto poco.

Ma resta il problema a cui accennavamo sopra: è tutto frettoloso, un’accelerata improvvisa dettata più da esigenze produttive che narrative. Tutte le sequenze che coinvolgono Emily Browning e Iwan Rheon sono scritte, girate e montate con il ritmo di una serie, diciamo così, “normale”; e spiccano quindi come una mosca sul muro dentro ad American Gods, che fin qui se n’è fregata di rispettare le regole e si è presa otto episodi di tempo per gingillarsi con esercizi di stile. Non è un problema delle sequenze in sé, ma del brusco stacco e scarto di tono: basta poesia, basta visioni, è arrivato il momento di accelerare in vista del traguardo – che peraltro ancora non sappiamo se coincida con il prossimo episodio o se ci aspetta una quarta stagione. Nel primo caso la vediamo grigia: è quasi impossibile che i prossimi quaranta-e-qualcosa minuti ci regalino un finale di serie soddisfacente. Nel secondo, consigliamo per la prossima stagione di decidere fin dall’inizio che cosa si vuole raccontare e come, invece di inseguirsi la coda per otto episodi su dieci.

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