American Gods 2x04, "The Greatest Story Ever Told": la recensione

A metà del suo corso, American Gods prosegue con un episodio dalla narrazione sfilacciata, che ci introduce molto brevemente due nuove divinità

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Spoiler Alert
"Questo è il modo in cui gli uomini come me pregano", mormora un uomo d'origine asiatica al figlio, strappato a forza dalle tentazioni digitali di un primitivo videogame e costretto a esercitarsi al pianoforte. La stretta correlazione tra la musica di Johan Sebastian Bach e la matematica è nota a chiunque abbia studiato l'opera del grande autore tedesco, e innesca il prologo di The Greatest Story Ever Told, quarta puntata della seconda stagione di American Gods. È un'introduzione densa e avvincente, che triangola musica, fede e tecnologia offrendoci, forse fuori tempo massimo, un illuminante sguardo sul culto legato a Technical Boy (Bruce Langley).

Tuttavia, la storia del giovane programmatore in grado di far comporre a un software sonate bachiane lascia ben presto il campo a tutt'altra atmosfera, con il focoso amplesso tra Shadow Moon (Ricky Whittle) e una misteriosa, conturbante presenza - personificazione della dea gatto egizia Bastet (Sana Asad) - sgattaiolata nella stanza dove egli alloggia, ospite del necroforo Mr. Ibis/Anubi (Demore Barnes), approdato dalle rive del Nilo in America per stabilire la propria attività in un luogo fatalmente chiamato Cairo. A nulla valgono i tentativi di Shadow di conoscere l'identità della sua misteriosa visitatrice: il sopraggiunto Wednesday (Ian McShane) impone a Ibis il silenzio.

Appare chiarissimo, in The Greatest Story Ever Told, quanto già intuibile dal precedente episodio, Muninn: Wednesday sta tentando in ogni modo di recidere i legami tra Shadow e il suo passato, legandolo a sé e all'ancestrale mondo dei suoi simili ultraterreni, senza tuttavia fornirgli un'esaustiva spiegazione sul suo status di prescelto. Nuova tappa del loro road trip è St. Louis, città che vive sotto l'egida di Denaro (William Sanderson), "il dio più potente in America". Un dio materiale, in opposizione al dio ideale di cui parla Ruby Goodchild (Mouna Traore) nella cappella di Ibis durante il suo scambio con Bilquis (Yetide Badaki).

A tal proposito, The Greatest Story Ever Told ha un titolo che potrebbe suonare familiare alle orecchie di molti appassionati di cinema: La più grande storia mai raccontata è, infatti, una delle più celebri - e costose - biografie filmiche della storia, costruita su un'immagine di Gesù di Nazareth tanto consolatoria quanto, a oggi, superata. Nel caso di American Gods, la divinità su cui la narrazione vorrebbe focalizzare la propria attenzione non è il Nazareno, bensì un suo ideale nemico: Denaro. Il condizionale è d'obbligo, poiché la suddetta incarnazione compare solo nei minuti finali dell'episodio, senza realmente soddisfare le alte aspettative createsi nel corso delle scene precedenti.

Il che è, a ben guardare, il problema fatale che questa seconda stagione di American Gods sta manifestando sin dalla propria première. La rapida comparsa e l'altrettanto rapida sparizione di Denaro, la morte di Argo e il ritiro forzato di Technical Boy lasciano il palcoscenico della guerra tra divinità piuttosto sguarnito: il guaio è che nessuna, tra le new entry, pare aggiungere qualcosa di significativo a un conflitto la cui posta in gioco è troppo nebulosa e impersonale per provocare un reale senso di perdita quando un dio decide di non volervi prender parte. Inoltre, non sembra che American Gods voglia sprecare troppo tempo a farci conoscere le nuove divinità prima di farle rapidamente scomparire.

Va detto che l'abbandono di Technical Boy da parte del giovane programmatore del prologo che ritroviamo adulto (interpretato da Andrew Koji) in veste di CEO di un'importante azienda è molto ben congegnato, e prelude in modo perfetto al successivo licenziamento della divinità da parte di Mr. World (Crispin Glover). La lotta per il potere con New Media (Kahyun Kim) aveva già acceso in Technical Boy un palpabile senso di inutilità - eco della percezione dello spettatore - e non è senza una certa malinconia che osserviamo il CEO voltargli le spalle, dimentico del suo unico amico in favore di nuovi e sfavillanti giocattoli tecnologici.

Forse questo è il destino di tutti gli dei: essere sfruttati dall'uomo per soddisfare le sue necessità, per poi essere soppiantati dalla novità. Quali strumenti restino, agli Antichi Dei, per sopravvivere al proprio glorioso passato in un mondo lanciato a velocità massima verso nuove suggestioni, è qualcosa che la seconda stagione di American Gods fatica a enunciare; esemplare, a riguardo, la scena tra Ibis, Bilquis e Nancy (Orlando Jones), in cui a quest'ultimo viene concesso lo spazio di un monologo che, seppur interpretato con fiammante potenza dall'attore, non coglie nel segno quanto potrebbe e dovrebbe.

Il limite della scena risiede, probabilmente, nel fatto che si limiti a essere un confronto tra punti di vista relativamente simili. La forza dirompente del discorso di Nancy avrebbe certo avuto un'eco diversa se, tra il suo pubblico, il dio avesse potuto vantare la presenza di un Wednesday. Inoltre, sebbene le ingiustizie razziali forniscano un collante ai tre personaggi coinvolti nella discussione, è difficile non avvertirne anche il potenziale prepotentemente limitante se rapportato a tre divinità. Siamo certi che tanto Bilquis quanto Nancy e Ibis, in virtù degli splendidi interpreti che ne vestono i panni in American Gods, meritino di essere rappresentati come fieri combattenti, ma ci auguriamo al contempo che la loro alleanza non si limiti al - seppur sacrosanto - vincolo della somiglianza etnica, rischiando d'intaccare così il meraviglioso, galvanizzante senso di universalità che li aveva permeati nella prima stagione.

"Abbiamo vissuto abbastanza a lungo da sapere che questi problemi sono senza tempo", ricorda proprio Bilquis ai suoi compagni. È vero che certi conflitti umani sono eterni, ma in The Greatest Story Ever Told Nancy ne parla in chiave molto specifica, legandoli all'oppressione subita dai discendenti del popolo africano forzatamente portati nelle Americhe insieme ai loro dei. Sulla carta, una lettura interessante; sullo schermo, un'occasione parzialmente sprecata, specialmente alla luce della straordinaria verve interpretativa di Jones e dei suoi interlocutori. Il risultato è una scena piacevole ma troppo autocompiaciuta per turbare o commuovere realmente il pubblico, uno strale lanciato senza aver chiaro in mente il bersaglio, in linea con una serie la cui preziosissima trama, giunti a metà della stagione, sembra voler continuare a sfilacciarsi.

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