American Fiction, la recensione
Il punto che vuole affermare American Fiction è molto intelligente ma il film poi non sa fare molto di tutta questa manifesta intelligenza
La recensione di American Fiction, il film con Jeffrey Wright, candidato a cinque Oscar.
Il punto di American Fiction (il titolo fa riferimento sia alla finzione dell'interesse verso le voci afroamericane, sia al commento sull'industria letteraria di finzione americana) è proprio parlare di questo, di come la rinnovata centralità del discorso razziale negli Stati Uniti, dei diritti civili e della considerazione degli afroamericani, in realtà è di nuovo una questione di bianchi e sostanzialmente sostituisce un’etichetta con un’altra. Per dimostrarlo questo scrittore scrive anche lui un libro vittimista, pieno di poveri afroamericani, e lo fa dietro pseudonimo inventandosi un’identità da romanziere appena uscito di galera. Il successo sarà inarrestabile e arriverà anche a Hollywood, aumentando il suo senso di colpa e la consapevolezza del fatto che il discorso razziale guidato dall’industria culturale non vuole complessità ma vuole guardare gli afroamericani in una maniera sola.
È semmai Jeffrey Wright ad adoperarsi in modi straordinari per inserire in questo film geometrico un’umanità coinvolgente. I modi attraverso i quali interpreta questo professore in cerca di legittimazione hanno tutto del livoroso, del frustrato e dell’insoddisfatto che non si fa una ragione del successo altrui, e poi si schiude in una strana e complicata sorpresa per il successo della propria presa in giro di quel tipo di romanzi, di come sia preso sul serio e come questo gli inizi a portare tutti i riconoscimenti che non ha mai avuto per i suoi romanzi più seri. La maniera in cui si muove da sola veicola l’idea che stia attraversando un percorso di purificazione che lo porterà a capire meglio il mondo in cui vive, forse. Soprattutto questo non è mai un eroe, non è la persona migliore possibile ma una guidata da invidie e insoddisfazioni.