American Fiction, la recensione

Il punto che vuole affermare American Fiction è molto intelligente ma il film poi non sa fare molto di tutta questa manifesta intelligenza

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di American Fiction, il film con Jeffrey Wright, candidato a cinque Oscar.

Le voci degli afroamericani non contano come quelle dei bianchi. Anche quando si parla di loro. Lo capiamo all’inizio del film quando il professore afroamericano interpretato da Jeffrey Wright è accusato da una studentessa bianca di stare facendo lezione su un libro che contiene la parola “negro”, cosa che la offende. Con molta fatica e senso della misura il professore concluderà che se lui può sopportarlo anche lei dovrebbe farcela. Finirà che sarà messo in sospensione dalla scuola per qualche tempo, cosa che innesca la trama di American Fiction. Con troppo tempo libero e una famiglia, che include una madre affetta da una malattia degenerativa, questo professore si concentra sulla sua carriera da romanziere e la fatica ad emergere. Soprattutto ora che tutti parlano di una nuova autrice afroamericana che ha scritto un libro che a suo modo di vedere è un compendio di stereotipi sulla povertà nera a uso e consumo del pubblico bianco che ama fare mea culpa. Il titolo è notevole: “We’s Lives In Da Ghetto”.

Il punto di American Fiction (il titolo fa riferimento sia alla finzione dell'interesse verso le voci afroamericane, sia al commento sull'industria letteraria di finzione americana) è proprio parlare di questo, di come la rinnovata centralità del discorso razziale negli Stati Uniti, dei diritti civili e della considerazione degli afroamericani, in realtà è di nuovo una questione di bianchi e sostanzialmente sostituisce un’etichetta con un’altra. Per dimostrarlo questo scrittore scrive anche lui un libro vittimista, pieno di poveri afroamericani, e lo fa dietro pseudonimo inventandosi un’identità da romanziere appena uscito di galera. Il successo sarà inarrestabile e arriverà anche a Hollywood, aumentando il suo senso di colpa e la consapevolezza del fatto che il discorso razziale guidato dall’industria culturale non vuole complessità ma vuole guardare gli afroamericani in una maniera sola.

American Fiction ha un chiaro messaggio e usa tutte le proprie energie per convogliare quello. Non è il massimo per un film, anche quando il messaggio in questione è molto intelligente e sofisticato come questo. Tuttavia va ammesso che quando questo sfocia nella satira dell’industria culturale funziona bene. Il problema è tutto quello che Cord Jefferson (che scrive e dirige) mette intorno a questa storia, cioè la parte intima e personale della vita del protagonista, che non ha un grande mordente e soprattutto non dà al film un piano superiore sul quale spostarsi, anzi lo tira verso il basso, verso il racconto di questioni ordinarie senza chissà quale trasporto. Se inizialmente potrebbe sembrare un film di Jordan Peele senza horror o tensione, cioè una storia di nuovi equilibri razziali vista da un punto di vista afroborghese, poi American Fiction si rivela poco più di un modo per mostrare un ragionamento, un film intelligente ma che non sa fare granchè di questa sua intelligenza.

È semmai Jeffrey Wright ad adoperarsi in modi straordinari per inserire in questo film geometrico un’umanità coinvolgente. I modi attraverso i quali interpreta questo professore in cerca di legittimazione hanno tutto del livoroso, del frustrato e dell’insoddisfatto che non si fa una ragione del successo altrui, e poi si schiude in una strana e complicata sorpresa per il successo della propria presa in giro di quel tipo di romanzi, di come sia preso sul serio e come questo gli inizi a portare tutti i riconoscimenti che non ha mai avuto per i suoi romanzi più seri. La maniera in cui si muove da sola veicola l’idea che stia attraversando un percorso di purificazione che lo porterà a capire meglio il mondo in cui vive, forse. Soprattutto questo non è mai un eroe, non è la persona migliore possibile ma una guidata da invidie e insoddisfazioni.

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