American Crime Story - The People v. O.J. Simpson: la recensione

Scritta e interpretata splendidamente, densa di spunti interessanti e avvincente come poche, American Crime Story è finora la migliore novità del 2016

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Il tribunale della Storia cala impietoso su tutti gli eventi degni di questo nome. Il suo giudizio non è necessariamente più obiettivo, ma la libertà che gli deriva dal non essere legato al particolare contesto o a valutazioni istintive lo rende degno di essere ascoltato. The People v. O.J. Simpson, primo capitolo della serie antologica American Crime Story, a sua volta spin-off del quasi omonimo show prodotto da Ryan Murphy sempre per FX, è il racconto per immagini di uno dei più controversi e dibattutti casi di cronaca nera della Storia recente, è la parafrasi romanzata di uno spaccato sociale e mediatico vecchio di vent'anni, ma ancora tremendamente attuale. Scritta e interpretata splendidamente, densa di spunti interessanti e avvincente come poche, American Crime Story è finora la migliore novità del 2016, un primato che sarà difficile intaccare.

Nel giugno del 1994 il prestigioso quartiere di Brentwood a Los Angeles diventa improvvisamente il centro mediatico degli Stati Uniti, dopo il ritrovamento dei cadaveri straziati di Nicole Brown Simpson e di Ronald Goldman. Principale, e in seguito unico indiziato è Orenthal James Simpson, stella della Football League, attore, celebrità di primo piano in America. Il processo per duplice omicidio catalizza per mesi e mesi le attenzioni di un'intera nazione, divisa tra il morboso attaccamento alla vicenda e il rigido schieramento tra colpevolisti e innocentisti. Mentre l'accusa mantiene le distanze dal circo mediatico ponendo l'accento sulle prove apparentemente schiaccianti, la difesa ribalta la prospettiva sul processo, puntando i riflettori sull'etnia dell'accusato, facendone un martire della causa degli afroamericani, attaccando il clima discriminatorio che sarebbe la regola nel dipartimento di polizia di Los Angeles.

Il resto, come si suol dire, è storia. O meglio, è fiction. O meglio ancora, è un insieme di entrambe. In un corto circuito continuo di sorprendente conflittualità e attualità, i contorni della spettacolarizzazione artificiosa della vicenda si confondono con la rigidità che l'aderenza storica ai fatti comporterebbe. Stiamo parlando di una storia stranger than fiction, ma che si presenta così ai nostri occhi perché è tutto un sistema ad averla veicolata e raccontata in questo modo. Cambiano i volti, cambia il formato, ma siamo anche noi lì, venti anni dopo, spettatori fra gli altri dell'epoca nel palcoscenico della Storia che si fa in quel momento. E noi, che ci appassioniamo alla vicenda, che formiamo la nostra opinione, che reagiamo ora con rabbia ora con tristezza, in cosa saremmo diversi dalla moltitudine astratta che all'epoca riempiva le piazze in attesa del verdetto?

In realtà, ma è ovvio, le differenze ci sono. American Crime Story non ha nessun'altra responsabilità se non quella che gli deriva dal voler raccontare una visione aderente ai fatti e rispettosa delle persone coinvolte. In questo senso la sua visione parziale (che la condividiamo o no) scagiona se stessa in un senso molto simile a ciò che, con intenti diametralmente opposti, aveva fatto pochi mesi fa Making a Murderer su Netflix. Siamo spettatori di qualcosa che è già avvenuto, che non sta avvenendo in questo momento. E la differenza è, anzi, è stata fondamentale, nella misura in cui è chiaro che ci troviamo di fronte ad una storia che ha nutrito e alimentato se stessa, deviando dai corretti binari e raccontando una vicenda che compiacesse un pubblico voglioso di sentirsela raccontare.

Parlare di comunicazione a senso unico oggi ha sempre meno senso, ma nel caso di una miniserie già fatta e compiuta può ancora significare qualcosa. Noi siamo spettatori di qualcosa che non possiamo influenzare, mentre all'epoca non fu così. Tutto questo discorso fatto finora tocca solo marginalmente il processo, le prove, le vittime, ma paradossalmente il nucleo della vicenda, e della serie, è proprio questo. È un qualcosa che ci piace evidenziare? Non necessariamente. Le vittime scompaiono dalla storia (trattate solo come strumenti che danno il via alla grande "recita") e l'idea che evidentemente nel caso di un complotto organizzato dalla polizia contro un "nero arricchito" come Simpson bisognerebbe anche pensare ad un assassino a piede libero là fuori non scuote mai il dibattito.

Lo stile della serie è lontanissimo e irriconoscibile rispetto a quello di American Horror Story, ultima serie con cui ci verrebbe in mente di fare un paragone, e ha anche il merito di scandire una particolare lettura degli eventi. La regia di Ryan Murphy alterna nei primi episodi un approccio più dinamico – anche troppo – ad uno più documentaristico (camera mossa, rapide zoomate in stile The Shield). Quest'ultimo viene però abbandonato dopo poco. Giusto il tempo di prendere le misure sul tipo di storia che ci verrà raccontata e su come interpretarla, e si può tornare ad un linguaggio televisivo meno atipico.

A quel punto muta la forma, ma non il contenuto. Si è fatto un grande lavoro di ricerca a partire dal casting, che non solo può vantare nomi di tutto rispetto, ma rimane anche rispettoso della fisicità dei protagonisti originali. Cuba Gooding jr è ora eccessivo nelle sue risposte emotive, ora sfuggente e distaccato, John Travolta, anche produttore esecutivo, da anni non era così convincente, Sarah Paulson offre un'interpretazione fatta di grande umanità e trasporto, David Schwimmer presta il volto al personaggio che vive forse il più grande conflitto interno. C'è serietà e passione per la vicenda e, quando lo spettacolo prende il sopravvento, non lo fa mai a scapito delle tematiche, ma solo perché veicolato da queste, come abbiamo già messo in evidenza. Le uniche cadute nella contemporaneità sono le frecciatine alle Kardashian che strizzano l'occhio allo spettatore.

Divisi tra il vivo ricordo della vicenda – possiamo solo immaginare l'impatto della vicenda negli States – e il distacco che l'impostazione autoriale imporrebbe, Scott Alexander e Larry Karaszewski, poggiandosi sul testo The Run of His Life: The People v. O. J. Simpson, ne hanno tratto materiale per un appassionante romanzo televisivo.

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