American Crime Story - The People v. O.J. Simpson: la recensione
Scritta e interpretata splendidamente, densa di spunti interessanti e avvincente come poche, American Crime Story è finora la migliore novità del 2016
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Nel giugno del 1994 il prestigioso quartiere di Brentwood a Los Angeles diventa improvvisamente il centro mediatico degli Stati Uniti, dopo il ritrovamento dei cadaveri straziati di Nicole Brown Simpson e di Ronald Goldman. Principale, e in seguito unico indiziato è Orenthal James Simpson, stella della Football League, attore, celebrità di primo piano in America. Il processo per duplice omicidio catalizza per mesi e mesi le attenzioni di un'intera nazione, divisa tra il morboso attaccamento alla vicenda e il rigido schieramento tra colpevolisti e innocentisti. Mentre l'accusa mantiene le distanze dal circo mediatico ponendo l'accento sulle prove apparentemente schiaccianti, la difesa ribalta la prospettiva sul processo, puntando i riflettori sull'etnia dell'accusato, facendone un martire della causa degli afroamericani, attaccando il clima discriminatorio che sarebbe la regola nel dipartimento di polizia di Los Angeles.
In realtà, ma è ovvio, le differenze ci sono. American Crime Story non ha nessun'altra responsabilità se non quella che gli deriva dal voler raccontare una visione aderente ai fatti e rispettosa delle persone coinvolte. In questo senso la sua visione parziale (che la condividiamo o no) scagiona se stessa in un senso molto simile a ciò che, con intenti diametralmente opposti, aveva fatto pochi mesi fa Making a Murderer su Netflix. Siamo spettatori di qualcosa che è già avvenuto, che non sta avvenendo in questo momento. E la differenza è, anzi, è stata fondamentale, nella misura in cui è chiaro che ci troviamo di fronte ad una storia che ha nutrito e alimentato se stessa, deviando dai corretti binari e raccontando una vicenda che compiacesse un pubblico voglioso di sentirsela raccontare.
Lo stile della serie è lontanissimo e irriconoscibile rispetto a quello di American Horror Story, ultima serie con cui ci verrebbe in mente di fare un paragone, e ha anche il merito di scandire una particolare lettura degli eventi. La regia di Ryan Murphy alterna nei primi episodi un approccio più dinamico – anche troppo – ad uno più documentaristico (camera mossa, rapide zoomate in stile The Shield). Quest'ultimo viene però abbandonato dopo poco. Giusto il tempo di prendere le misure sul tipo di storia che ci verrà raccontata e su come interpretarla, e si può tornare ad un linguaggio televisivo meno atipico.
A quel punto muta la forma, ma non il contenuto. Si è fatto un grande lavoro di ricerca a partire dal casting, che non solo può vantare nomi di tutto rispetto, ma rimane anche rispettoso della fisicità dei protagonisti originali. Cuba Gooding jr è ora eccessivo nelle sue risposte emotive, ora sfuggente e distaccato, John Travolta, anche produttore esecutivo, da anni non era così convincente, Sarah Paulson offre un'interpretazione fatta di grande umanità e trasporto, David Schwimmer presta il volto al personaggio che vive forse il più grande conflitto interno. C'è serietà e passione per la vicenda e, quando lo spettacolo prende il sopravvento, non lo fa mai a scapito delle tematiche, ma solo perché veicolato da queste, come abbiamo già messo in evidenza. Le uniche cadute nella contemporaneità sono le frecciatine alle Kardashian che strizzano l'occhio allo spettatore.
Divisi tra il vivo ricordo della vicenda – possiamo solo immaginare l'impatto della vicenda negli States – e il distacco che l'impostazione autoriale imporrebbe, Scott Alexander e Larry Karaszewski, poggiandosi sul testo The Run of His Life: The People v. O. J. Simpson, ne hanno tratto materiale per un appassionante romanzo televisivo.