American Crime Story 2x01, "L'uomo da copertina": la recensione

Il primo episodio di American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace fa della menzogna il suo tema centrale, costruendo una puntata suggestiva e barocca

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Dalle nubi di un cielo affrescato in una casa sfarzosa ai raggi caldi e reali di una vivida mattina, ogni cosa sembra illuminata nella Miami che dà il buongiorno a Gianni Versace (Édgar Ramírez) nella scena che apre American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace, nell'esigua finestra delle ore che separano il momento in cui l'uomo apre gli occhi per l'ultima volta e quello che li gelerà per sempre nella vitrea fissità di una morte deturpante. Una morte che sfigura la bellezza, sia essa di un Versace prematuramente freddato o di un'ignara colomba trovatasi a passare tra lo stilista e la pistola del suo assassino Andrew Cunanan (Darren Criss).

E pensare che sembra quasi travestito da bambino, questo Cunanan, che la prima inquadratura a lui dedicata dalla serie ci mostra di spalle, calzoncini corti, berretto con la visiera, seduto in spiaggia a contemplare il luminoso orizzonte dell'oceano. Mentre Gianni osserva dall'alto - letteralmente e socialmente - il mondo, Andrew sulla sabbia apre il suo zainetto e ne tira fuori un libro, The Man Who was Vogue: The Life and Times of Condé Nast, e una pistola. In due minuti, American Crime Story ci ha già raccontato visivamente i punti salienti della sua première di stagione: il lusso, la disparità di classe, la violenza e, soprattutto, la menzogna.

Non è casuale, in tal senso, la scelta dell'Adagio di Remo Giazotto, meglio noto come Adagio di Albinoni, per accompagnare il maestoso incipit di L'uomo da copertina (il cui titolo originale, The Man Who Would Be Vogue, ricorda beffardamente il citato libro su Condé Nast). Un pezzo celeberrimo, il cui successo - almeno iniziale - è stato costruito su un'immensa bugia e sul fascino che il nome del compositore barocco recava con sé. Da subito, quindi, Ryan Murphy bussa alla porta della mente del pubblico, insinuandovi una tentazione che diviene leitmotiv dell'episodio (e, intuiamo, dell'intera stagione): il fascino irresistibile della mistificazione.

Lo squallore della vita di Cunanan si ammanta infatti di una patina sfavillante grazie alle dorate bugie che il giovane snocciola nel tentativo di nobilitare le proprie origini per non restare schiacciato dal peso di un'identità più che mai incerta. La domanda "chi è Andrew Cunanan?" trova paradossale risposta in un altro interrogativo, ancor più complesso: "chi vorrebbe essere Andrew Cunanan?". La figura portata sullo schermo da Criss - tragico pagliaccio perennemente travestito da qualcun altro, che sia per intrufolarsi in ambienti altolocati o per sfuggire all'inseguimento della polizia - costruisce sé stessa in funzione dell'altrui percezione, in un meccanismo autodistruttivo che non fa che acuirne i dubbi d'identità.

Apparentemente risolto nell'accettazione della propria omosessualità, Cunanan emerge ben presto come hypocritès (parola greca atta a indicare il mestiere d'attore) a tutto tondo: come rimarcato da un amico fin troppo affezionato, Andrew si dichiara gay con i gay ed etero con gli etero. Ecco, quindi, il miraggio di un'identità definita, offerto su un piatto d'argento dall'uscita mattutina di Gianni Versace per comprare il giornale: chi è Andrew Cunanan? L'assassino di Gianni Versace, lo stesso uomo a cui, anni prima, in un estremo tentativo di seduzione, aveva raccontato d'esser figlio di un ricco proprietario terriero delle Filippine.

American Crime Story

In virtù di questa cattedrale di falsità, L'assassinio di Gianni Versace assume una valenza simbolica significativa, strizzando l'occhio al pubblico per spingerlo a chiuderli entrambi sulle presenti e future licenze poetiche rispetto alla realtà degli eventi, presunta o quantomeno dichiarata. Sappiamo che Antonio D'Amico (Ricky Martin) in realtà non fu trovato dalla polizia mentre stringeva tra le braccia il cadavere dell'amato Gianni; la famiglia ha negato che lo stilista fosse affetto da alcuna specifica patologia (come suggerito nella serie dalla presenza di farmaci da assumere quotidianamente); allo stesso modo non c'è prova che tra Versace e Cunanan vi sia mai stato più che un breve scambio di battute, avvenuto in pubblico parecchi anni prima del delitto. Nel trasporre in fiction la tragedia di Andrew e, di conseguenza, di Gianni, American Crime Story dimostra quindi l'intelligenza di tramutare l'eventuale critica in tema portante: raccontando la storia di un bugiardo seriale, ogni menzogna è concessa. La cornice giustifica il contenuto.

Precisato ciò e dimenticata, quindi, qualsivoglia aderenza evenemenziale, il primo episodio di questa nuova stagione di American Crime Story è una macchina complessa di straniante bellezza, forte innanzitutto della grandezza dei suoi eroi tragici. La mimesi impressionante di Ramirez-Versace, il cui make up impeccabile sconvolge l'occhio di chi possa ricordare la fisionomia dello stilista calabrese, s'affida a un'interpretazione sottile e trattenuta, nel rispetto di un personaggio così gigantesco da poter facilmente tramutare un'interpretazione più carica in parodia imitatrice. La somiglianza fisionomica aiuta anche Criss-Cunanan, ma un meritato plauso va alla cura messa dall'attore di Glee nella costruzione di una mimica inquietante, tra le cui maglie più o meno larghe intravediamo i tratti dell'ossessione e della psicosi criminale.

Diverso approccio è quello di Penélope Cruz all'iconica (e icona) Donatella Versace, musa ispiratrice e leonessa che difende la famiglia dagli assalti esterni, siano essi in forma di colosso bancario (la Morgan Stanley) o in forma di fidanzato del defunto fratello (Antonio D'Amico). Cruz rinuncia al virtuosismo fonetico dell'accento italiano, concentrandosi piuttosto sulla gestualità e sulla voce di Donatella, affidando il resto alle sue forti spalle d'attrice. Scorgiamo ancora Penelope sotto la bionda chioma di Donatella? È presto per dirlo, ma al momento - dimentichi dell'anomalia linguistica, che impone a Martin e Cruz di parlare in inglese interpretando due personaggi italiani - la sospensione dell'incredulità non sembra vacillare. Non molto si è visto, infine, del D'Amico di Martin, ma il confronto con il detective Scrimshaw (Will Chase), subdolamente giudicante nelle sue domande, restituisce tutta la gravosa discriminazione di un'epoca a noi vicina che, seppur forse non appartenente alla vita quotidiana di Versace, coinvolgeva gran parte della popolazione omosessuale.

Solo i prossimi episodi, infine, potranno decretare l'efficacia o meno dell'ambiziosa scrittura della stagione, che sceglie di partire dalla scena madre - l'omicidio di Gianni - per procedere poi alternando due linee temporali parallele: una che ha inizio nel 1990, data del primo presunto incontro tra Andrew e Versace, e l'altra che segue le indagini successive al delitto e la fuga di Cunanan dalle forze dell'ordine che lo braccano. Per ora possiamo dire che, seppur dovesse risultare fatale per la riuscita complessiva di L'assassinio di Gianni Versace, questa ricercata complessità formale ha regalato al primo episodio un appeal conturbante e perfettamente in linea con ciò che Versace stesso inseguiva nelle sue creazioni: la negazione dell'essenzialità, il costante anelito al sontuoso. Bizzarro, forse kitsch, ma inequivocabilmente abbacinante.

American Crime Story

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