America Latina, la recensione | Venezia 78

America Latina è un film dal fascino mentale, ed è l’espressione lampante di un’autorialità, quella dei D’Innocenzo, che continua a sorprendere ogni volta di più.

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America Latina, la recensione | Venezia 78

Nessun altro in Italia se non i fratelli D’Innocenzo avrebbe potuto fare un film come America Latina. Non solo perché nell’arco di soli tre film sono riusciti a prendere una direzione autoriale così ben definita, che indaga senza alcun timore stilistico o narrativo i non detti della società contemporanea, le sue dinamiche e simboli. Ma, soprattutto, perché America Latina ad oggi risulta come un unicum per la sua capacità essenziale e sofistica di ragionare su quei temi attraverso un linguaggio finemente psicologico. Un linguaggio quasi sperimentale, che non rinuncia né al divismo (Elio Germano) né alla comprensibilità (che è comunque estremamente enigmatica), ma anzi li stressa, li distrugge e poi li ricostruisce fino a ottenere qualcosa di inimitabile: un grande film dei Fratelli D’Innocenzo.

Per ritmo, intensità e struttura siamo praticamente dalle parti dell’horror. Ma America Latina è un horror di sole vittime, in cui a essere in pericolo è soprattutto l’idea stessa di normalità, di certezza sociale e famigliare. A introdurci in questa dimensione perturbante non è però solo la fotografia di Paolo Carnero, tra magnifici viraggi in rosso o multicolor che rimandano agli anni Sessanta e Settanta del genere. Perturbante è l’idea stessa di non rivelare quasi niente, di lasciare lo spettatore in un costante clima di tensione, di dubbio e di sospetto che è totalemente immersivo. I D’Innocenzo con America Latina fanno qualcosa di incredibile perché riescono a raccontare una storia attraverso la mera esperienza percettiva: no, non si tratta di un bell’esercizio di stile. Si tratta di una prova di grande maturità registica.

Portare quindi alle estreme conseguenze. Questo è lo spirito con cui America Latina espone con forza e tantissimo stile i suoi dubbi sulla figura dell’uomo medio contemporaneo. Quest’uomo medio (che è molto più universale di quanto suggerisca il titolo) è Massimo (Elio Germano), un dentista che vive con la moglie e le due figlie in una stranissima casa in provincia di Latina e conduce una vita piuttosto noiosa e ripetitiva. Massimo sembra accontentarsi di ciò che ha ottenuto nella vita, ma quando un giorno fa una strana scoperta nella sua cantina tutte le sue convinzioni vanno in frantumi.

Massimo viene osservato dai D’Innocenzo a distanza ravvicinata, distorto, delocalizzato nella sua stessa casa (una casa dalla geografia incomprensibile, un incubo architettonico), alienato dal suo stesso sé. Come se fosse un topo da laboratorio, viene studiato nelle sue reazioni, nei suoi comportamenti più peculiari e apparentemente assurdi.

La semplicità di questo studio è però spiazzante, perché senza bisogno di troppe spiegazioni, ma attraverso la mera forza dell'immagine, i D’Innocenzo riescono a raccontare un intero mondo interiore, fatto di angosce e frustrazioni. A fargli gioco vi sono punti di vista impossibili (dal tettuccio della macchina), riflessi sdoppiati (da un vetro, da uno specchio), prospettive ribaltate (dove l’alto e il basso compiono un giro di novanta gradi). Ma, oltre alle mille idee visive, i  D’Innocenzo dalla loro anche un Elio Germano essenziale, che lavora in sottrazione, perseguendo il minimalismo fino ad arrivare al nucleo della sua recitazione. Gli bastano uno sguardo, un’esitazione, e noi sappiamo esattamente cosa sta pensando, dove il film ci vuole guidare. Ci sono solo un paio di scene un po' troppo emblematiche, che stridono rispetto alla fine allusione costretta in quel momento. Ma è una sbavatura da poco rispetto a tutto il resto.

America Latina è un film dal fascino mentale, ed è l’espressione lampante di un’autorialità, quella dei D’Innocenzo, che continua a sorprendere ogni volta di più.

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