Amen - la recensione
[San Sebastian Film Festival] Amen, girato esclusivamente da Kim Ki-Duk e dalla sua attrice, è un film sulla solitudine realizzato in maniera atipica...
E’ possibile realizzare un film con una troupe di sole due persone?
Basta vedere i titoli di coda per rendersene conto, semmai non lo si sia riuscito a capire (e non è scontato farlo) durante l’ora e mezza di proiezione: non ci sono credits, il film l’ha fatto lui da solo assieme all’attrice. O è lui che riprende lei, o viceversa. Inutile quindi sottolineare come ci siano solo due personaggi nel film, mentre è importante dire che non si tratta di una storia ambientata in una camera o un documentario, ma di un vero e proprio road movie.
Con il suo solito tocco poetico, Kim Ki-Duk pennella una delicata storia di solitudine, perseveranza e coraggio, caratterizzata da quel tema dell’invisbilità che già si riscontrava con il capolavoro che lo rese famoso, Ferro 3. Ingrassato, capelli lunghi, dimesso, Kim Ki-Duk sta vivendo un particolare periodo della sua vita e quando lo abbiamo incontrato al Festival di San Sebastian (dove ha presentato Amen) per un’intervista, tutto ciò che siamo riusciti a tirargli fuori è che il tempo passa e che ormai prende la vita, così come la macchina da presa, senza fare progetti. Non scrive sceneggiature, giusto un’idea di soggetto, e poi si lascia guidare dall’istinto. Per nostra fortuna il suo è quello di un genio, e anche con un minuscolo film come questo, riesce a dare un’idea di solitudine e amore disperato che in pochi altri film è mai riuscito a emergere con tanta intensità. Ad averne di depressi come lui...