Amen, la recensione

Al primo film Andrea Baroni sorprende con un interessante studio sulla repressione religiosa, sorretto da un grande cast.

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La recensione di Amen, il film diretto da Andrea Baroni in arrivo al cinema dal 27 giugno.

"Massimo risultato col minimo dei mezzi". È questo il senso della riuscita di Amen, ciò che avrebbe da insegnare a un cinema (il nostro) a cui manca come il pane questo tipo di operazioni fra genere e autorialità. Non perché si tratti di un capolavoro, ma perché è la dimostrazione di come budget, location e star contino meno di un'idea di cinema forte, che sa cosa raccontare e come rimanere fedele alla propria concezione formale. Anche quando se ne notano i difetti (e ce ne sono) resta la sensazione che il film abbia in gran parte raggiunto il suo scopo: quello di parlare di un certo tipo di esperienza umana con mezzi puramente cinematografici, sfruttando (quasi) al massimo risorse che alla fine si riducono a sceneggiatura, regia, due o tre ambienti e un cast - quello sì - straordinario.

Difficile districare il contenuto del film da com'è messo in scena. Ci troviamo sicuramente in Italia, sicuramente dopo il 1978 (l'unico punto di riferimento sono le canzoni che passano alla radio e il '78 è l'anno di uscita della più recente, Pensiero stupendo di Patty Pravo). Ma non capiamo esattamente quando nè dove, perché gli attori in scena non hanno accento e perchè l'azione è confinata all'interno e negli immediati dintorni di una masseria di campagna, dove vive una famiglia rigidamente cattolica composta da nonna, padre e tre figlie. Non è un'imprecisione ma una scelta deliberata di limitare le nostre conoscenze di spettatori e insieme la portata del racconto. Più volte Luca Baroni calca anche visivamente su questo senso di incompletezza, sfocando le inquadrature o tenendo i personaggi parzialmente fuori campo.

È questo il modo in cui vedono il mondo le ragazze protagoniste, allevate in un'atmosfera a un passo dal fondamentalismo (preghiere sui ceci, punizioni corporali ecc.) ma che ora, cresciute, iniziano a sfidare l'autorità familiare e a cercare il contatto con l'esterno. Amen è un racconto sulla repressione, soprattutto della sessualità femminile, e può essere accostato all'ondata di film femministi usciti in questi ultimi mesi. Ma è anche qualcosa di profondamente diverso, più vicino nello spirito al nostro cinema di genere. Il suo messaggio liberatorio e anti-clericale lo fa passare con la tensione narrativa - quando abbiamo paura che il padre scopra le ragazze a infrangere qualche divieto -  o l'erotismo, quando introduce un personaggio su cui si concentrano i loro desideri repressi.

Non tutto fila liscio. Nella seconda parte il racconto gira più a vuoto, anche perché la dimensione erotica tende a ripetersi, riducendo il personaggio di Esther (la bravissima Francesca Carrain) a una figura un po' monodimensionale. Ma resta la sensazione di un cinema pensato artigianalmente, curato nella scelta delle inquadrature che non stanno lì per fare da sfondo ai dialoghi ma fanno procedere visivamente la narrazione. E resta il cast, fra i più ispirati visti di recente nel cinema italiano. Un plauso particolare a Paola Sambo che lavorando su espressioni e tono di voce scolpisce un villain memorabile, uno di quelli che fanno paura perché chi li interpreta ha il coraggio di rappresentarli empaticamente non come mostri, ma come persone intelligenti che seguono una propria logica perversa di bene. Nella sua prova c'è più di un eco della Louise Fletcher di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ed è tutto dire.

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