Ambulance, la recensione

Michael Bay è sempre più sfiduciato, in Ambulance non c'è più da la grande macchina eccezionale americana e rimane il dispositivo di tensione

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Ambulance, in uscita al cinema il 24 marzo

Questa volta più che mai, le immagini dicono qualcosa e i dialoghi un’altra. Michael Bay continua a riprendere le sue storie dal punto di vista più estetizzante possibile, usando tramonti e la grande enfasi del mito cinematografico per raccontare un’America splendente, ma sotto quella patina, quello che accade non ha più niente di splendente. Lo splendore che vedevamo nei suoi film iniziali, così pieni di orgoglio per il paese, così propagandistici nel raccontare come in ogni posizione ci fosse sempre la persona migliore possibile, messa nelle condizioni migliori possibili, non c’è più da un po’. Già nel secondo Transformers, Shia Le Beouf, eroe del film precedente, perdeva il lavoro e non ne trovava altri nonostante quel che aveva fatto; poi c’è stata l’America dei dementi di Pain And Gain; e poi ancora Thirteen Hours aveva segnato la punta massima di disillusione nei confronti dell’idea dell’eccezionalismo statunitense. Ora c'è Ambulance, un film simile a quelli che aveva girato negli anni '90 per impianto ma che poi inizia con un veterano di guerra afroamericano che non riesce a trovare i soldi per curare la moglie, e lei che afferma: “Perdo fiducia in questo paese ogni giorno di più”.

Stavolta più che mai suona come un’America di ultimi quella coinvolta nel grande inseguimento frutto di una rapina che doveva essere facile e invece è andata male. Malissimo. Come in Grand Theft Auto al procedere della fuga i mezzi della polizia aumentano, si moltiplicano le auto, arrivano gli elicotteri e il team SWAT. Sì moltiplicano oltre il sensato per sconfinare nel paradosso, nel surreale, in un territorio dove tutto ha logica solo in virtù dell’esplorazione del movimento sul schermo e del rapporto tra velocità e meccanismi di messa in scena. In tutto questo i due fratelli a bordo dell’ambulanza che non doveva farli notare e invece ora è facilissima da individuare hanno a che fare con i passeggeri che hanno trovato a bordo: un poliziotto ridotto malissimo e la paramedica che lo sta curando. Mettere in salvo sia l’uomo che rischia la vita che se stessi dalla polizia non sembra essere possibile.

Dell’originale danese Ambulancen c’è davvero solo lo spunto, ridotto all’osso. Quello era un film asciuttissimo di 80 minuti a budget contenuto, questo è Michael Bay che mobilita una quantità di mezzi tale da bloccare Los Angeles per più di due ore tiratissime. Stavolta però non siamo né dalle parti del suo cinema più intimo (Thirteen Hours, Pain And Gain) né da quelle del delirio futurista digitale di Transformers o del puro sperimentalismo cinetico di 6 Underground, questo è un film con un passo un attimo più controllato, in cui con effetti quasi solo pratici e un senso dell’ironia da Bad Boys la macchina mortale di Bay cerca di distilla la tensione. La sua troupe, i suoi uomini e il gruppo con cui realizza film sono un team così affiatato e allenato da rendere possibile quello che altrove è impensabile e che nessun altro film, nemmeno quelli hongkonghesi degli anni ‘90, riesce a mostrare. Questo in sé è uno spettacolo dei muscoli del cinema.

Per certi versi sembra di vedere un film di Peter Berg sotto anfetamina, con la sua etica dei cittadini soldato che vivono in casa, quelli che paiono conflitti. Perché la guerra non è mai evocata esplicitamente, ma ogni snodo la ricorda. Si parla di tattiche e strategie, del sogno di tornare a casa e mentre dei droni acrobatici incasinano ancora di più il tutto (sono la trovata meno utile e più burina) i dialoghi vengono usati come proiettili. Le frasi sono sparate in botta e risposta che sembrano conflitti a fuoco, con il ritmo delle sparatorie (e alle volte lo stesso esito). Così se Alfred Hitchcock sembrava avere un accesso privilegiato a quel che lo spettatore pensa nel vedere i suoi film e usava questo per sorprenderlo, Bay sembra voler manipolare alla stessa maniera l’adrenalina, poterla comandare con il suo film e farci, più che racconto, arte audiovisiva.

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