Amanda, la recensione
Schiacciato sotto il peso di un registro surreale senza mordente, Amanda è un’opera prima tanto pretenziosa quanto fallimentare
La nostra recensione di Amanda, presentato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti
Amanda (Benedetta Porcaroli) ha venticinque anni, una spocchiosa famiglia di farmacisti e una desolante assenza di frequentazioni. Chiede alla domestica Judy di accompagnarla ai rave party, incapace di instaurare un rapporto sentimentale di qualsivoglia natura con i suoi coetanei. Le sue cotte hanno fondamento quanto quella della nipotina ottenne per Gesù, e l’avversione al lavoro enfatizza lo stallo in una sorta di infanzia prolungata.
Solitudini a confronto
Casualmente, la protagonista viene a conoscenza della sua assidua frequentazione, nella prima infanzia, con la figlia di un’amica della madre: tale Rebecca (Galatea Kraghede Bellugi). Anche quest’ultima vive in una bolla, se possibile ancor più isolata dal mondo rispetto ad Amanda; autoconfinatasi in un eremitaggio limitato allo spazio della propria camera da letto e, alla meglio, della casa dove vive con la madre Viola (Giovanna Mezzogiorno), Rebecca rifiuta inizialmente i tentativi d’approccio della ex amica, determinata a ricostruire un rapporto di cui, fino a poco prima, non aveva alcuna memoria.
Amanda è famelica nel suo assalto a Rebecca, desiderosa di saziare la propria voglia di qualcosa che, nella vita, non ha mai davvero assaporato: l’amicizia. Non c’è però pietismo nel modo in cui Cavalli decide di ritrarre la solitudine delle due strambe ragazze; se Amanda esplora il mondo a caccia di amici, Rebecca - che precedentemente ha avuto vita sociale - rinuncia al mondo in favore del proprio eremo domestico. Ma gli opposti si attraggono, e ben presto il guscio di Rebecca cede al peso dell’insistenza di Amanda, suscitando perplessità nelle persone attorno a loro.
Un registro straniante
Le premesse di Amanda erano accattivanti; lo svolgimento, lo diciamo subito a scanso di equivoci, non lo è affatto. La commedia surreale di Cavalli è schiava di uno stile sfacciatamente - e fastidiosamente - sopra le righe, dietro cui però non scorgiamo alcuna reale visione narrativa. Muovendosi su un palcoscenico popolato di figure stralunate, la stranezza di Amanda perde mordente nel giro di pochi minuti, finendo al più per strappare un sorriso con qualche tempo comico piacevolmente azzeccato.
Non giova certo la scelta di una recitazione alienante da parte di ogni singolo membro del cast; se Porcaroli riesce quasi sempre a gestire l’assurdità di questa scelta, lo stesso non può dirsi di Bellugi, dell’esordiente attore Michele Bravi o della stessa Mezzogiorno; la cappa dell’artificiosità non si tramuta mai in fascinoso stilema, confinando Amanda nella nicchia dei meri esercizi di stile. Mentre annaspiamo in questa lattiginosa palude, la mente rimpiange la favola che il film di Cavalli sarebbe potuto essere. Proprio come Amanda, sentiamo la mancanza bruciante di qualcosa che non esiste: la versione un po’ più umile, un po’ più matura, di questa intima odissea di un’outsider. Ma a nulla vale fantasticare; di fronte ai nostri occhi non c’è che un film in tutto e per tutto manierista, con pochi sprazzi di comicità e molto, troppo autocompiacimento.