Alla vita, la recensione

Uno dei più classici drammi d'ambientazione rurale italiano viene peggiorato da un team creativo francese, nonostante due buoni interpreti

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Alla vita, in uscita in sala dal 16 giugno

Sceneggiatori francesi e un regista francese hanno girato un film pienamente italiano nella produzione e nella concezione, uno tradizionale e molto ancorato a ciò che più di tutto produciamo: storie di riconquista di un’autenticità perduta, nel sud Italia. In questo caso si parla delle classiche due solitudini che si incontrano, due personaggi paralleli da manuale di sceneggiatura che in modi diversi sono intrappolati da regole da cui desiderano fuggire se solo ne avessero il coraggio. 

Lui è il figlio di una famiglia di coltivatori di cedri che li ha sempre venduti ad una comunità di ebrei ortodossi e continua a farlo, rispettando le regole impartite dalle generazioni precedenti. Ha rinunciato a tutto, ad una vita a Roma e anche alla famiglia, per continuare la tradizione. Lei viene dalla comunità ortodossa ed è prigioniera in una religione in cui non crede più, almeno non così tanto da rispettarne i dettami ortodossi. Nel meridione contadino fantasioso in cui la cura della terra è presentata come una pratica curativa piena di gioia, balli canti e felicità, mai come una fatica, i due si incontrano e non senza resistenze stabiliscono una forma di strana comunicazione in incognito tramite un forum online (!).

Di cosa parla davvero Alla vita? Di eredità familiari che creano mondi di regole di cui si rimane prigionieri malvolentieri? Di come ci si muove in questi spazi? Delle prigioni dell’anima? Forse di un ritorno ALLA VITA come dice il titolo? Qualsiasi sia la risposta che ogni spettatore può darsi Stéphane Freiss (il regista) non riesce a centrarla e Alla vita rimane un abbozzo di film più che un film vero. La cosa è tanto più fastidiosa quanto è evidente che le persone coinvolte funzionerebbero. La coppia di poche parole formata da Riccardo Scamarcio e Lou de Laâge (un’abbonata ai film di religiosità dura e pura dopo Agnus Dei) funziona e anzi sembra di capire che la loro recitazione, proprio perché di poche parole, abbia possibilità di racconto molto più ampie della sceneggiatura o della regia standardizzata e pavida di Freiss.

Ci saranno tutte le scene che è lecito prevedere dallo sguardo verso l’orizzonte che suggerisce un mutamento, fino al delicato incontro che non diventa carnale, fino addirittura al più classico dei vestiti rossi (come la passione) che, indossato, certifica la caduta delle barriere e l’adesione ad una vita più autentica in contatto con il proprio intimo sentire. Una redenzione che viene dalla vita contadina, ovviamente.

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