All We Imagine As Light, la recensione | Cannes 77

Tre donne cercano un posto per sè in una grande città, da questo All We Imagine As Light costruisce uno scavo nell'umanità

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di All We Imagine As Light, il film di Payal Kapadia presentato in concorso al festival di Cannes

C’è un’indubbia grande dolcezza nel modo di filmare di Payal Kapadia. Anche quando filma degli scontri tra i suoi personaggi, c’è una morbidezza di sguardo e un rifugiarsi in occhiate, dettagli o piccoli gesti che suggeriscono un’intimità fragile. Per tutta la durata del film, l’impressione è che, nelle tre donne protagoniste di All We Imagine As Light, Kapadia cercherà i segni di anime in pena. Vale per la più giovane, con un fidanzato con il quale non riesce a trovare un posto per un po’ di intimità; vale per l’infermiera con il marito lontano, che finisce per trovare dolce anche la cuociriso che lui le manda; vale per l’arrabbiata donna anziana che una grande società immobiliare sta cacciando dalla sua abitazione perché non ha le carte che dimostrano che è sua.

Questa è proprio una storia di donne in città, ripresa con focale lunga, in un groviglio di comparse, alle prese con la quotidianità di una grande metropoli indiana. Per certi versi potrebbe ricordare (almeno nelle sue prime parti) La grande città di Satyajit Ray (anche quello uno studio su una donna). È la storia di personaggi che non hanno uno spazio per sé, condividono appartamenti o vengono cacciati, che lavorano e si danno da fare per gli altri ma sembrano non riuscire a farlo per se stessi. È un’impostazione molto schematica quella su cui si basa il racconto, cosa che affossa le aspirazioni del film e lo costringe a fare gli straordinari lavorando sui dettagli per creare un po’ di complessità. Kapadia ha così in amore i suoi personaggi da riconoscergli tutto e non negargli nulla, sono donne immacolate con pensieri puri a cui il mondo volta le spalle. Troveranno consolazione in se stesse e in una fuga dalla città verso il mare dove tutto all’improvviso ha un senso.

È impossibile non sentire una comunanza e non riconoscersi come parte del genere umano guardando queste persone che Kapadia ammira proprio per la loro umanità, usando la semplicità dei gesti quotidiani come strumento per fare la loro conoscenza. È indubbiamente una brava regista Kapadia, ha uno stile e il tipo di visione che può creare un film coerente, complicato e dal buon impatto visivo, ma sceglie una rarefazione e una dilatazione dei tempi che non solo non gestisce granché bene, ma soprattutto non si adatta bene al tipo di film che è All We Imagine As Light, che anzi di un pochino di frenesia in certi punti avrebbe beneficiato.

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