Alita: Angelo della Battaglia, la recensione
Dopo decenni nel cassetto di James Cameron, Alita: Angelo Della Battaglia arriva in sala diretto da Rodriguez
Il cinema per Cameron è un prodigio d’ingegneria, di tecnologia e di tecnica, che tuttavia appare come magiaAlita: Angelo della Battaglia è un altro capitolo nella storia dell’uso del motion capture di cui dovremo tenere conto (molto più di quanto non dovremo tenere conto del suo uso del 3D, impeccabile ma invisibile). Non è estremo come Avatar ma sofisticato e studiato, finalizzato a far sì che un design impossibile (occhi troppo grandi, come accade nei manga) contamini un corpo in tutto e per tutto fotorealistico. E gli occhi di Alita sono importanti, perché quello che la caratterizza è il fatto di essere forte fuori e molto fragile dentro, suscettibile di amori e affezioni rapide e adolescenziali. Si innamora ben presto, dopo pochi minuti di film, e a dircelo sono proprio gli occhi. La maniera in cui guarda il ragazzo cui è attaccata (assieme a quella in cui lo guarderà nel finale) sono impressionanti per resa e capacità di comunicare.
Tutto Alita: Angelo della Battaglia è infatti un film classico, quasi di una ventina d’anni fa, tradotto per adattarsi a sensibilità, esigenze, stile e pubblico moderno. Lo si vede da come gestisce la violenza, molto presente e molto efferata senza che tuttavia si veda nulla. Ci sono squartamenti e morti subitanee condotte con fare splatter che avvengono solo pochi centimetri fuori dall’inquadratura, oppure lasciano uscire sangue blu e non rosso. Certo il film ad oggi suona un po’ una ripetizione di molto di già visto (che tuttavia Alita, il manga, riportava a galla per primo negli anni ‘90) e nonostante l’indubbia scorrevole piacevolezza rimane poco impresso.