Aline - La voce dell'amore, la recensione

Liberamente ispirato alla vita di Céline Dion, Aline ne percorre pedissequamente le tappe con un approccio grottesco e straniante

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La recensione di Aline - La voce dell'amore, il film di Valérie Lemercier dal 20 gennaio al cinema

Lo (pseudo) biopic di Céline Dion è un’opera che vive e fa leva su scoperte contraddizioni. Una trasposizione non autorizzata, solamente "ispirata" alla vita della star canadese (la protagonista si chiama Aline Dieu e anche tutti gli altri nomi delle figure coinvolte sono cambiati) che include però riferimenti ironici ai fatti reali: il produttore che la vede per la prima volta la chiama per errore Céline e sulla cover di un disco la canzone "La voix du Bon Dieu" (traccia principale dell'album d'esordio di Dion) diventa "La voix du Bon Dion". Allo stesso tempo, Aline - La voce dell'amore ne percorre pedissequamente le tappe della vita e della carriera: l'infanzia in una famiglia di umili origini del Québec con 14 fratelli più grandi di lei; il successo a 12 anni, la relazione con il suo manager poi diventato suo marito, i momenti clou, come l’esibizione all’ Eurovision Song Contest e alla cerimonia degli Oscar con My Heart Will Go On. I passaggi più riconoscibili che ricalcano con precisione quelli di qualsiasi tradizionale biopic (non manca nemmeno la sequenza a episodi come veloce riassunto) assunti fino in fondo con ironica consapevolezza e fatti stonare con i toni con cui sono descritti.

C’è un’atmosfera fiabesca e grottesca a pervadere tutta la narrazione, a iniziare dal microcosmo contadino québécois in cui cresce, dipinto con colori pastello, e dai componenti della sua famiglia, figure caricaturali che sembrano usciti da un film di Jean-Pierre Jeunet. "Sarò una bambina fino al giorno della mia morte" canta da piccola Aline, senza che nel film lo sia mai veramente. La regista e interprete Valérie Lemercier (in patria nota comica e one woman show) ne veste i panni già dall’infanzia, col suo volto da donna matura sul piccolo corpo della bambina, e per tutto il film. Le sue movenze, mentre canta e si dimena sul palco, sembrano allora impacciate tanto quanto la voce, spesso citata apertamente come fonte del suo fascino, è soave, ma nelle scene cantate appartiene in realtà alla cantante Victoria Sio. Prendendo le distanze dal consueto e (spesso) forzato approccio mimetico alla figura reale, Lemercier implicitamente riflette sulle tante star divenute famose troppo presto e poi incapaci di fronteggiare l’universo che si trovano davanti, preferendo chiudersi dentro uno immaginario.

Questo è veicolato anche dall’accentuata e invasiva colonna sonora che, come da prassi, accompagna la narrazione, ma qui è ancora una volta usata come elemento dissonante. Il primo appuntamento della protagonista è messo in scena da una sdolcinata love song e da un ralenti esasperato sul suo corpo che vorrebbe essere incantevole ma non fa che sembrare l’opposto. L'universo fatato della protagonista e quello di qualunque favola principesca finiscono per combaciare, sfacciatamente artificiosi e in cortocircuito.

Il film dunque passa in rassegna tutte le tappe della carriera della protagonista in una serie di siparietti comici molto divertenti, che mettono in luce il suo essere corpo fuori posto. Piano piano si fanno breccia anche gli aspetti negativi, come il poco tempo per stare coi figli che comporta la vita da star. È notevole però come, anche nei momenti più tristi, lo sguardo della regista resti glaciale nei suoi confronti. Suo padre viene a mancare e lei lo scopre solo tardi, per non interrompere un’esibizione. Si confessa addolorata da un prete e organizza in fretta e furia un funerale, ma tutto ci appare sempre ridicolo, ritratto con straniante sagacità piuttosto che con commiserazione. Una presa di posizione chiara contro qualsiasi idea di celebrazione e agiografia, che colpisce ancora di più quando solo nel finale arriva un momento sincero in cui viene meno il grottesco per lasciare spazio a una parentesi dolente. Dopo aver realizzato di non essere mai uscita dalla propria villa o dalla limousine per 14 anni, Aline esce per le strade di Las Vegas cercando di riappropriarsi di quella vita ordinaria che le è sempre stata preclusa. Un tardivo rientro in binari consolidati, un ulteriore e definitivo elemento di stonatura per lo spettatore, che rivela quanto Aline, col suo gioco quasi parodico, sia anche un’amara messa in scena del mondo mentale di una celebrità che forse troppo tardi riesce a aprirsi alla realtà.

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