Alien: Romulus, la recensione

Alien: Romulus prova che non è sufficiente azzeccare l'estetica per dare un seguito soddisfacente alla saga di Alien

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La recensione di Alien: Romulus, il nuovo capitolo della saga diretto da Fede Álvarez, in sala dal 14 agosto.

Un gruppo di operai della Compagnia Weyland-Yutani esplora il relitto di una nave che si era imbattuta nei resti della Nostromo di Alien. Presto scoprono di non essere soli.

Se c'è qualcosa di positivo in Alien: Romulus è che aiuta (fallendo) a capire quanto sia difficile fare un film di Alien. Romulus azzecca in pieno una delle cose fondamentali della saga, e cioè l'impianto visivo: le scenografie, la fotografia, il lavoro di design sono semplicemente perfetti; il team di Fede Álvarez ha studiato quei film palmo a palmo e il risultato è un look che si colloca con mimetismo sorprendente in quelle atmosfere, parzialmente ripudiate dai prequel di Ridley Scott in favore di un digitale più freddo e asettico. È proprio lo scarto fra questo stato dell'arte e la debolezza complessiva del film a permetterci di inquadrare ciò che già sapevamo, ma che Romulus conferma nel modo peggiore: Alien è (sempre stato) molto di più della sua estetica.

Sappiamo perfettamente che Álvarez aveva un film di Alien dentro di sé, perché ne ha "già" diretto uno. Si chiama Man in the Dark (2016). In quel b-movie fantastico c'era tutta la maestria necessaria per cimentarsi con la saga, applicata a un contesto molto simile: un ambiente buio e claustrofobico, una minaccia che poteva colpire da ogni angolo, e un uso magistrale dello spazio scenico, che per livello di dettaglio interattivo diventava quasi personaggio a sè. Purtroppo quella padronanza dei luoghi e della loro funzionalità narrativa in Romulus è completamente assente: i corridoi avvolti di vapore, i condotti che si aprono a spirale, tutto quell'immaginario che conosciamo così bene non fa mai il passo da scenografia a luogo drammaturgico credibile.

Parte del motivo è che Romulus si accoda a una lunga serie di reboot che negli ultimi anni hanno abusato del fan service come strategia comunicativa; strategia che nel caso di Alien appare doppiamente stupida, sia perché rispetto a Star Wars & Co si parla di una saga relativamente di nicchia, sia perché il fan service (col suo correlato di familiarità e tepore nostalgico) stride con racconti che hanno sempre puntato innanzitutto a mettere a disagio il pubblico. Il fatto è che questa necessità di omaggiare continuamente i film originali finisce per piegare alle sue esigenze regia e sceneggiatura, che non riescono a fare propri i materiali narrativi (com'era successo a tutti gli autori della quadrilogia originale) ma ne vengono strumentalizzate nell'ottica di strizzare l'occhio allo spettatore.

È troppo spesso palese l'imposizione, il bisogno di inserire un elemento per i fan piuttosto che in risposta a una visione artistica. C'è un dialogo (fra i tanti) in cui ci si chiede "a che servono questi fucili? Se gli spariamo l'acido scioglierà lo scafo della nave e moriremo tutti". La risposta è "forse le armi li spaventeranno" (!!!), ma è ovvio che il vero motivo è mostrare gli iconici fucili a impulsi usati dai Marines di Aliens. L'Álvarez regista poi appare inesistente rispetto a quanto visto in Man in the Dark: quelle astronavi non sono mai roba sua come lo era la casa del veterano killer, perché la messa in scena si appiattisce nel bisogno di mostrare il lavoro calligrafico sugli ambienti piuttosto che usarli in modo creativo per spaventare.

Altra cosa che Álvarez e Sayagues sembrano scordarsi è che tutti i film di Alien erano film di personaggi, dove il tono, la personalità registica e le tematiche andavano a coagularsi intorno a figure capaci (a partire da Ripley) di farsi perno emotivo delle vicende. Nessuno dei personaggi di La Casa o Man in the Dark era niente di che, ma lì bastava abbozzare qualche tratto riconoscibile prima di mandarli al macello. Poteva essere interessante vedere applicato questo approccio a un film di Alien, ma di nuovo gli sceneggiatori non sanno decidere tra il proprio stile e quello che il fandom potrebbe volere, e ricadono su una mezza via che non sa di niente: cinque personaggi incolori, e l'unico interessante (l'androide Andy di David Johnsson) fallato da un clamoroso errore di caratterizzazione che ne mina l'introduzione empatica come "persona artificiale". E con essa l'ultima speranza di provare interesse per la vicenda.  

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